Voguing o le norme esasperate (Parigi, 2015)

DOI : 10.54390/modespratiques.508

Traduit de :
Voguing ou les normes excédées (Paris, 2015)
Autre(s) traduction(s) de cet article :
Voguing… or the Height of Exaggeration (Paris, 2015)

Plan

Notes de la rédaction

Inchiesta di Manuel Charpy con Leonor Delaunay e Pablo Grand-Mourcel.
Fotografie : Manuel Charpy e Pablo Grand-Mourcel.
Traduzione di Laura Massarelli, corretrice Silvia Vacirca.

Texte

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Fotografia Pablo Grand-Mourcel e Manuel Charpy

«Il Ball, significa esprimere la sua propria sofferenza e inventare la sua vita.» Lasseindra

Sfilata, beat e lazzi

Ritroviamo Yanou e Kylee seduti sulle rive della Senna, di fronte alla stazione d’Austerlitz, tra guinguette da cocktails chic e tende di rifugiati, mentre sorseggiano una bottiglia di birra. Non c’è fretta, anche se devono ballare tra una mezz’ora: il ball non ha tema stasera, quindi niente maquillage né abiti di scena. Sarà una semplice t-shirt grigia larga, con la strana scritta «Undesirable n° 1 Harry Potter», jeans slim e espadrillas per Yanou; berretto largo, canotta ampia con smiley, un jeans slim e scarpe da basket alte per Kylee. Si apprestano a ballare al Wanderlust. Il locale fa temere un pubblico di voyeur venuti allo spettacolo di giovani di periferia travestiti. Yanou e Kylee non sono preoccupati, sono indifferenti al luogo: le serate «Il fior fiore» sono organizzate da Lasseindra, la loro mother della «House of Ninja» e lei sa proteggere le «sisters». Passano alcuni balordi, ma le Voguer sono a casa propria e fanno dimenticare presto il carattere trendy cool del posto. Sanno resistere con noncuranza ad ogni recupero. Lo spettacolo è previsto per le 19; incomincia verso le 22, senza preavviso.

Una scena è materializzata da alcuni cordoni di velluto, che di solito servono a contenere chi aspetta per entrare nel locale. All’estremità di questo podio fantasmatico, una giuria: Sky, ballerina della House of Ninja, un ballerino professionista habitué di queste battle, vagamente simile a Tupac, e un uomo vestito con un insieme pantera e degli occhiali cerchiati che evocano un intellettuale panafricanista degli anni Sessanta. All’altra estremità della pista, un DJ, e lungo i cordoni si affollano Voguer e simili. Stasera è con la House of Ladurée che si gioca il ball. Si apre con alcuni passaggi pasticciati delle Voguer che si fanno fischiare gioiosamente e copiosamente. Se pure aggirano i codici sociali tramite i travestimenti, le Voguer hanno elaborato per la danza e i riti dei balls dei codici arbitrari e d’una complessità infinita… il che permette tutte le prese in giro. Il défilé comincia. Su un beat hip-hop e a tratti house, una commentatrice – speaker – , dai seni a ogiva e in bilico sui tacchi a spillo, emette un flow continuo di rap con una voce bassa rabbiosa e roca. Mescolando inglese e francese, commenta i passaggi, celebrando i successi e deridendo gli insuccessi. Il coro del pubblico l’accompagna, con delle specie di melopee, per sostenere o seppellire i candidati da giudicare. Poiché il Voguing è anche, così come i battles di rap, del reading – con un erompere di sarcasmi – o dello shade, – la versione con insulti. Spesso omofobi, servono a proteggere dall’omofobia quotidiana.

I frizzi e lazzi sono essenziali perché il pubblico deve scegliere il suo campo nei duelli che si succedono. L’eliminazione è diretta, dettata dalla giuria e dalla folla. Il pubblico fa corpo con la sua House; quella sera, si divide tra il sostenere la House of Ninja oppure sostenere la House of Ladurée – i passaggi scatenano un grido singolare tra gli uni e «dolce, salato, House La-du-rée» tra gli altri. Le due Houses mimano una competizione, fatta d’opposizione di stili. Per la House of Ninja si coltiva volentieri lo stile inventato da Willi Ninja che ha creato la Casa negli anni Ottanta a New York e ammirava Fred Astaire, i gesti di ginnastica olimpica e le arti marziali. Ma la House of Ninja di Parigi ha in più un suo stile proprio, impresso da Lasseindra, fatto di cadute spettacolari e di humor spaccone. Si recita la competizione fino al catch e al burlesco: le candidate si spintonano, si accasciano, mimano la ferita… – negli anni Ottanta si mimavano delle lotte al coltello – e quando arriva il verdetto, fanno finta di gridare allo scandalo, si buttano per terra, abbattute, urlano che c’è il trucco… Come un concorso di bellezza che finisce male.

Paillettes e calzini

Per il neofita, le categorie della sfilata sono impenetrabili. Ironiche, le nostre Voguer tentano di spiegarcele – avendo cura di essere inaccessibili. Le une sono Old way, le altre Up in Drag, Vogue Fem, Butch Queen Face, American runway, European runway… Se non usano l’argot, così come il Pig latino delle Voguer di Harlem degli anni Ottanta, non smettono però di giocare con il linguaggio. Unica cosa chiara alla fine, il termine Voguing viene, come avrete indovinato, dall’imitazione delle pose della rivista Vogue. Le sfilate sono al tempo stesso una parodia delle pose delle riviste femminili, delle sfilate di alta moda, e dei concorsi per le Miss Bellezza– con tanto di trofei per le grandi serate. Adottano allora dei temi, simili d’altronde a quelli degli anni Ottanta: da «The Face au Cleopatra» a «Hollywood »…«Per quelle serate, le Voguer si danno un gran da fare, mettendo insieme abiti e costumi trovati nei mercatini, o fabbricati col cartone, coperti di tessuto o dipinti. Parrucca e trucco volentieri eccessivi completano la trasformazione anche se in gran parte, esse conservano qualche attributo maschile, barbe accuratamente tagliate o torsi villosi.

Ma il costume non è indispensabile: buona parte delle sfilate si fanno con i vestiti di tutti i giorni. È il caso di quella sera, al Wanderlust – «venite così come siete» dice la locandina. Kylee, Naomi Campbell con la pelliccia e una chapka e gambe interminabili in alcune serate, balla oggi con la sua T-Shirt H&M, uno short di jeans stretch e dei calzini da sport – un classico tra le Voguer. La sovversione appare allora ancor più radicale: il ball e la sua aria da music-hall autorizza il travestimento e gli dà un aspetto carnevalesco. In t-shirt e calzini, la trasgressione è duplice: le Voguer fanno esplodere i codici del genere eterosessuale e al tempo stesso quelli della cultura gay mainstream, sulla quale incombono con tutto il loro peso i canoni fisici e le norme d’abbigliamento.

Periferie

A mezzanotte la sala si svuota, per forza, è l’ora dell’ultima metropolitana regionale. E senza nessuna esitazione, visto che domani è giornata lavorativa per un buon numero di persone. Alcuni sono in formazione, altri hanno appena passato la maturità, altri ancora cercano un «lavoro qualunque», quei posti precari e pagati male di commessi di fast-food o d’abbigliamento. Yanu finge di stupirsi che nonostante la sua «beautiful face», nessun datore di lavoro lo contatti, dopo aver mandato una ventina di CV, nei quali una esperienza ad Auchan drive si affianca ad una prestazione di danza per Hermès.

Non è una caricatura: ci sono anche i figli della classe media, ma la stragrande maggioranza delle Voguer viene dai quartieri cosiddetti «popolari» – Charenton, Villiers-sur-Marne, Romainville, Champlan… quartieri non necessariamente «malfamati», ma nei quali è difficile essere omosessuale. Sono tutti figli di migranti, «rebeus» e soprattutto «renois» [magrebini e neri, nella parlata argot dei giovani, n.d.t.] come ci spiegano, e tra questi molti vengono dalle Antille... Lasseindra invece viene dalla Guyana. E tutti sono gay e lo rivendicano, sottolineando volontieri che la House of Ninja di Parigi conserva quanto a lei, rispetto ad altre «cricche», la sua dimensione gay e militante.

Houses, mothers and sisters

Avevamo appuntamento la settimana scorsa per una seduta fotografica a Parigi in un monolocale del XX arrondissement (quartiere), appuntamento fissato qualche settimana prima con Lasseindra. Si passa da lei per ogni cosa. Ci eravamo incontrati nell’estate del 2013, davanti al chiosco per la musica, di fronte al Municipio di Charenton. Lasseindra mi aveva spiegato, un po’ seccata, che tutte le mie domande erano senza senso. Era diffidente, dopo alcune brutte esperienze con delle riviste di moda importanti. Avevamo preso appuntamento per il mese seguente; ci siamo rivisti un anno dopo. Abbiamo così discusso delle condizioni per fare delle foto dei membri della House of Ninja. Lasseindra esigeva un contratto per proteggere le ‘ragazze’ e il controllo sulla scelta delle immagini.

In questo mese di luglio 2015, il giorno delle fotografie, passa per verificare tutto, e delega la sua firma a una delle «sisters» per il contratto. Essere la «Mother» della House of Ninja implica l’accompagnare i suoi ballerini come farebbe la regista di una troupe. Ma la House è molto di più: una famiglia adottiva, come lo sono state le Houses nella Harlem degli anni Ottanta-Novanta per i gay latinoamericani e neri. In rottura o in situazione tesa con le loro famiglie, qui trovano un rifugio. Simbolicamente, senza equivoco, abbandonano il loro cognome per sostituirlo con Ninja . E questa famiglia, elettiva, coltiva la sua genealogia. Lasseindra chiama i suoi componenti i suoi «babies» e a loro volta essi si chiamano tra loro «sisters» Lasseindra chiama «grand mother» Willi Ninja, il fondatore della House of Ninja. Nuova famiglia con i suoi legami di solidarietà che creano degli obblighi, tra i quali la protezione.

Pose

Aspettando Lasseindra, ci installiamo e proviamo la luce. A fine mattinata, sono arrivate tutte. Dopo alcune battute sul quartiere «che fa schifo», perché è impossibile trovarci un KFC, due se ne vanno alla ricerca di menu di McDonald’s. Tess trucca tutti quanti. Kylee ha un asciugamano annodato in testa per evitare che i suoi capelli lunghi – che non ha – intralcino il trucco. Nella cucina del monolocale trasformata in guardaroba, le Voguer aprono le loro sacche da sport e si vestono.

Sanno che si tratta di uno spettacolo in cui più di tutto contano l’effetto e i gesti. Perciò i vestiti sono di poco prezzo – spesso GAP, New Look, marche di grandi magazzini o delle imitazioni. Non è solo questione di soldi: se anche parlano delle marche, specie quelle di lusso, in fin dei conti esse non hanno una grande importanza nel Voguing. Quel che conta è arrangiarsi una tenuta da scena – la creazione –, il vestito è gioco e travestimento. Il buon gusto non è previsto, le Voguer sono altrove, vogliono gusto e gioco, lungi dall’uniforme sobria della Parigina. Finalizzano le loro tenute con delle graffette, elastici e spille da balia, celate in astucci da scuola. Sanno che la moda, quella delle riviste patinate, è soprattutto immagine – i loro trucchi sono quelli dei fotografi di moda.

Storie

Una Voguer che aspetta di essere fotografata fumando uno spinello, alla finestra, mi raccomanda le fotografie di Chantal Regnault, uno dei rari reportage sulle Voguer di New York degli anni Ottanta, e riprende con passione la storia del Voguing. Se le Voguer minano i clichés del genere, maltrattano anche gli stereotipi della sociologia. Evidentemente l’idea secondo la quale le «autentiche» sotto culture sono senza storia, poiché spontanee, non regge. Tutti raccontano la loro storia del Voguing, a volte mitico, ma ne danno sempre una lettura dettagliata. Tutti hanno visto Paris is burning – dal nome di una serata – della documentarista Jennie Livingston, uscito nel 1990, e se lo conoscono è proprio perché lascia un ampio spazio a Willi Ninja. Tutti hanno un’idea sulla natura del fenomeno e sul suo ritorno. Ma non c’è niente di artificiale in questo: impegnarsi nel Voguing quando si è un giovane omosessuale figlio di immigrati non può esser fatto solo a metà. Da qui la loro volontà di sfuggire ad ogni folclorizzazione. Esse accettano serate e contributi in qualche clip, ma restano diffidenti nei confronti di ogni vampirizzazione.

Le Voguer – resta ancora da condurre l’inchiesta– fanno risalire la loro storia alla New York degli anni Trenta, momento in cui si sviluppa la «ball culture». All’epoca è bianca: sul modello dei concorsi per Miss, dei concorsi di danza e delle sfilate di moda, i partecipanti sono premiati per i loro costumi. I neri sono rari, e possono esistere solo parodiando la loro identità, o, al contrario, schiarendosi la pelle. Ma in realtà le tracce di queste pratiche presso gli omosessuali neri sono introvabili – il che non significa negare la loro esistenza. Comunque sia, le Voguer risalgono volentieri a quell’epoca mitica che àncora chiaramente il Voguing nella marginalità sociale e nella lotta delle minoranze contro una società opprimente.

Quel che è sicuro è che negli anni Sessanta a Harlem alcuni omosessuali neri cominciano a organizzare i balls, all’incrocio delle lotte contro la segregazione e quelle del movimento LGBT nascente. Queste serate – Harlem Drag Balls – somigliano a dei balli in maschera: star hollywoodiane, personaggi storici, da Cleopatra a Maria-Antonietta, cantanti alla moda… Il tutto con dei costumi a paillettes molto ispirati al music-hall. Se alcuni hanno trovato nel movimento Harlem Renaissance delle tracce di una cultura gay, questa è globalmente male accetta da una lotta contro la segregazione dagli accenti culturali e religiosi, ma anche sempre più paramilitari e virili. Tuttavia i tempi cambiano e a pochi chilometri da Harlem, le sommosse a Stonewall e al Greenwich Village nel giugno 1969 danno una nuova visibilità al movimento gay e lo politicizzano. L’anno seguente il lancio a Los Angeles e a New York di una sfilata chiamata «gay pride» facilita l’espressione pubblica dell’omosessualità e fa diminuire la repressione poliziesca, molto forte ivi compreso a New York, dove tutto è divieto: travestirsi, servire dell’alcool agli omosessuali, ballare tra uomini…

Con gli anni Settanta, il movimento si sviluppa ma soprattutto si organizza. La prima House sembra esser stata creata nel 1977 da Crystal Labeija. Mentre a San Francisco le White Night Riots – in seguito alla troppo debole condanna di White, l’assassino di Harvey Milk – riportano alla ribalta la questione della condizione omosessuale, delle Houses aprono al di fuori di New York, nelle città con una forte cultura nera, come Baltimora, Washington e Atlanta. Protettrici, offrono un riparo a questi giovani omo in fuga, spesso rifiutati dalle loro famiglie e che non sempre hanno già raggiunto la maggiore età sessuale.

Economia precaria, come mostra Paris is burning: tutte moltiplicano i lavoretti di giorno, e la notte alcune di esse fanno lo strip-tease nei locali notturni – una infima parte si prostituisce. Esse praticano il mopping, termine d’argot – forse da mop, arraffare – per designare lo shopping che non passa alla cassa. Ma la sera e spesso durante tutta la notte, ad Harlem – al 10 West, 129th Street –, si ridistribuiscono le carte. Le Voguer, a volte con una rivista in mano, mimano la iper-femminilità che impera all’epoca nella stampa e nella pubblicità. Ma giocano anche con i codici della mascolinità e dell’eterosessualità in delle categorie dedicate ai militari, agli studenti modello delle scuole delle élite, ai quadri dinamici di Wall Street… Nelle notti di Harlem, questa gioventù squattrinata mima la norma del successo, incarnata da Manhattan. La norma, così esacerbata, esaltata, crolla allegramente sotto il peso dei suoi codici.

Con gli anni Ottanta, il movimento va incontro a una duplice mutazione. Con l’arrivo dell’AIDS, le Houses assumono un’importanza ancora maggiore, dato che la solidarietà e il sostegno sono essenziali di fronte alla malattia e al rifiuto delle famiglie. D’altra parte, la cultura dei balls è sempre più visibile: nel 1990, proprio mentre esce il documentario Paris is burning, che incontra un relativo successo, il clip Vogue del ‘mostro’ Madonna dà in spettacolo il Voguing al grande pubblico. Le Houses si moltiplicano. Ci sono quelle che portano il nome del loro fondatore – House of Pendavis, House of Duprée, House of Corey, House of Ninja –, quelle che rivendicano la loro identità – House of Ebony, House of Overness… –, poi quelle che portano volentieri il nome di una marca – House of Saint Laurent, House of Dior, House of Chanel, House of Miyake-Mugler, House of Balenciaga, House of Ladurée… Autenticità perduta dalla società dello spettacolo? A partire dal 1989, Willi Ninja rimpiange gli antichi balls, la scomparsa della vita musicale e sociale delle vie di New York… Se Paris is burning somiglia a un canto del cigno, è perché esso esprime la nostalgia d’un mondo, quello di prima dell’AIDS.

Genealogie

Ma il Voguing oggi è vivo. La sua resurrezione non ha nulla di inatteso. Il suo sviluppo non è forse senza rapporto con la cultura gay della Parigi degli anni Venti-Trenta. Del resto, come lo hip-hop, è una cultura che opera in modo sotterraneo. Frutto di esclusioni molteplici e d’una serie di norme da sventare, ha tutte le ragioni di perdurare. Contrariamente a quanto ha potuto affermare la sociologia, le culture popolari non vivono una sola volta, e le loro repliche non sono necessariamente commerciali, denaturate… La coscienza e la conoscenza della loro storia non sono sinonimo della perdita di una ipotetica autenticità.

Le Voguer di oggi rifiutano forse il Voguing degli anni 1980, quello dei neri e dei Latinos gay di Harlem. Ma niente qui è folkloristico: le Voguer sono dei gay neri e arabi, in un mondo che li esclude dal lavoro a causa delle loro origini, in un ambiente prossimo che li esclude in quanto gay, infine, in un mondo gay che li esclude perché poveri. Per loro, il filo di questa storia non si è mai spezzato. Lasseindra non chiama forse Willi Ninja, morto a 45 anni nel 2006, grand mother, e Archie Burnett, ballerino nero che danza il voguing da uomo, «grand père», cioè nonno? Le sisters guardano con occhio divertito le fotografie scattate e ne scelgono qualcuna per i loro press book. Struccatura rapida: sono attese per una serata. Alcune se ne vanno ilari con ancora delle tracce di trucco, pregustando già le reazioni dei passanti per strada.

Voguing - pose

Voguing - Shooting

Voguing - Wanderlust

Bibliografia

Molly McGarry e Fred Wasserman, Becoming Visible: An Illustrated History of Lesbian and Gay Life in Twentieth-century America, New York, Penguin Books, 1998.

A. B. Christa Schwarz, Gay voices of Harlem Renaissance, Indiana University Press, 2003.

Marlis Schweitzer, When Broadway was the Runway: Theater, Fashion and American Culture, University of Pennsylvania Press, 2009.

Voguing: Voguing and the House Ballroom Scene of New York City, 1989-92, photographs by Chantal Regnault, Introduction by Tim Lawrence, Soul Jazz Books, 2011.

Tiphaine Bressin e Jérémy Patinier, Strike a pose: Histoires(s) du voguing, Parigi, Éditions Des ailes sur un tracteur, 2012.

Documentari

Jennie Livingstone, Paris is burning, 1990, 78 min.

Frédéric Nauczyciel, Vogue! Baltimore, 2011, fotografie e installazione.

Documents

  • Voguing - pose

  • Voguing - Shooting

  • Voguing - Wanderlust

Illustrations

Fotografia Pablo Grand-Mourcel e Manuel Charpy

Citer cet article

Référence électronique

Manuel Charpy, Léonor Delaunay et Pablo Grand-Mourcel, « Voguing o le norme esasperate (Parigi, 2015) », Modes pratiques [En ligne],  | 2020, mis en ligne le 01 janvier 2024, consulté le 29 avril 2024. URL : https://devisu.inha.fr/modespratiques/508

Auteurs

Manuel Charpy

Chargé de recherche CNRS.

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Traducteurs

Laura Massarelli

Laura Massarelli è traduttrice et interprete parlamentare.

Silvia Vacirca

Silvia Vacirca è una storica della moda italiana.