Abolire la moda

Inchiesta sulla Rivoluzione culturale cinese e la repressione delle «tenute stravaganti»

DOI : 10.54390/modespratiques.991

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© Bahia Alecki

Alla vigilia della «Rivoluzione culturale», la stampa del paese lanciò un attacco in piena regola contro le «tenute stravaganti»1. Era un segno che annunciava i «quattro vecchiumi» contro cui si sarebbe battuta la Rivoluzione culturale. Le strade si riempirono rapidamente di Guardie rosse che misuravano le gambe dei pantaloni e i capelli dei passanti. A causa della loro acconciatura, la gente comune era sottoposta ad aspre critiche e veniva costretta a sfilare per strada con metà della testa rasata, i vestiti fatti a brandelli o a portare grandi cappelli di carta, al punto che i suicidi divennero un fatto quotidiano. Così, la paura e la violenza si diffusero in tutto il paese2. Col senno di poi, sembra che le spedizioni punitive delle autorità, su scala nazionale, contro «le tenute stravaganti» siano state il primo fulmine a ciel sereno della Rivoluzione culturale.

Durante i 17 anni che seguirono, «tenuta stravagante» sarebbe rimasto un termine disonorevole3. Fu solo il 13 dicembre 1983, nel corso della riunione dei segretari della Lega della Gioventù Comunista delle provincie e regioni autonome, organizzata su scala nazionale sotto la direzione del suo Primo segretario Hu Yaobang, che il termine è stato riabilitato durante un discorso sull’«inquinamento spirituale» in cui Hu dichiarò: «Il primo punto [nella pulizia dell’inquinamento spirituale] riguarda la tenuta, il modo di vestirsi. L’attuale maniera di vestirsi è buona o cattiva? Per me, è cattiva, inclusa la vostra di oggi. I nostri vestiti attuali non sono corretti: un unico colore, un unico stile. Parlare di tenuta stravagante non è corretto. Gli stranieri che vedono le nostre compagne portare i pantaloni considerano che anche questa sia una tenuta stravagante.»4

«Pelle sociale5», il corpo e i suoi oggetti ornamentali interrogano il campo ideale dell’intimo e dello spazio pubblico in termini di struttura e dinamismo. Il vestiario originariamente è una questione privata della gente comune che fa parte del loro quotidiano. Come mai, in un contesto storico particolare, diventa uno strumento di lotta di classe e di repressione? Come si può stabilire un legame tra «tenuta stravagante» e «inquinamento spirituale»? In concreto, a cosa corrispondeva a quel tempo una «tenuta stravagante»? E una «tenuta rivoluzionaria»? Come si stabilisce un legame tra abbigliamento e rivoluzione? Nella situazione politica, culturale, storica e sociale della Rivoluzione culturale, quali erano le interazioni tra individuo e Stato, tra individuo e politica? Nell’espressione della sua agentività umana (human agency), in che modo l’individuo è investito o privato dei suoi diritti6?

Per rispondere a queste domande ci siamo basati sulla cronaca locale, gli archivi, gli articoli e i saggi degli intellettuali, nonché sugli articoli di periodici e giornali influenti, ma anche su documenti provenienti dall’estero.

Poi, abbiamo confrontato questi testi molto misurati con inchieste svolte sul campo: principalmente si tratta di interviste approfondite ai cittadini residenti nella provincia del Guangdong [il cui il capoluogo è Canton] durante la Rivoluzione culturale, e di qualche fotografia della vita quotidiana durante quel periodo7. Seguendo il modello di Norman Denzin nel The Comparative Life History8, abbiamo scelto di interrogare persone di età compresa tra 45 e 80 anni che lavoravano o studiavano nel Guangdong durante la Rivoluzione culturale, ad eccezione di un cinese originario del Guangdong che allora si trovava in missione in Africa.

Nel corso delle nostre interviste, con metodo induttivo, abbiamo chiesto ai nostri interlocutori il loro punto di vista sul loro abbigliamento e quello della loro cerchia (famiglia, colleghi e amici) nonché sulle «tenute stravaganti», poi gli abbiamo chiesto quale fosse il loro abbigliamento quotidiano e quello del loro entourage durante la Rivoluzione culturale, e infine le loro impressioni sulle «tenute stravaganti» e le storie che potevano raccontarci a tale proposito. Basandoci sull’esperienza di Nicolas Herpin e Liliale Kasparian, che hanno condotto un’inchiesta sull’abbigliamento nel 19839, abbiamo invitato i nostri interlocutori a commentare l’abbigliamento e la moda così come appariva sulle loro fotografie (personali o di famiglia) scattate durante quel periodo.

«TENUTE STRAVAGANTI»?

La circolare emessa il 16 maggio 1966 dal Comitato centrale del Partito sulla Rivoluzione culturale – la «circolare del 16 maggio» – esortava a lottare contro il «feudalesimo», il «capitalismo» e il «revisionismo». Per semplificare, il «capitalismo» designava l’Occidente, il «feudalesimo» il passato e il «revisionismo» gli altri paesi comunisti. È così che «feudalesimo», «capitalismo» (o «borghesia») e «revisionismo» divennero i bersagli della Rivoluzione culturale, e l’abbigliamento ne fu uno dei primi. I vestiti russi tipo blazy erano «revisionisti», i completi all’occidentale «borghesi», i qipao (o cheongsam) residui «feudali», e qualsiasi vestito un po’ variopinto era una «tenuta stravagante».

Durante la Rivoluzione culturale, praticamente tutti i cittadini, anche nel Guangdong, portavano una «tenuta rivoluzionaria». Qualsiasi fosse l’età, la professione, l’identità, lo status o il sesso, la popolazione era vestita in modo molto omogeneo e la sua tenuta quotidiana consisteva principalmente in abbigliamento militare, tute da lavoro, vestiti col collo Mao (nelle quattro varianti), tenute Lenin o delle Guardie rosse. La produzione di tessuti e vestiti subiva a quel tempo l’influenza di una direttiva molto radicale, e molti tessuti e stili apprezzati dalla gente portavano l’impronta infamante dei «quattro vecchiumi», mentre certe fantasie erano giudicate «controrivoluzionarie». I colori grigio, nero, blu e kaki (definito «giallo» dai Cantonesi) erano le principali tonalità in voga tra i dirigenti; i vestiti dei cittadini cantonesi erano in misto cotone, tela kaki e denim.

Cos’era allora una «tenuta stravagante»? Durante i dieci anni della Rivoluzione culturale, la definizione è cambiata secondo le regioni e i periodi. A Shanghai, tra il 1969 e il 1973, le «tenute stravaganti» includevano principalmente i colli huntun, i colli siumai, i pantaloni aderenti neri, i grandi colli rovesciati o appuntiti, i risvolti ampi, le grandi tasche applicate, i grossi bottoni, le camicie da donna in nylon trasparente e i pantaloni a zampa d’elefante10. Ascoltando le testimonianze, si possono individuare quattro tipi principali di «tenute stravaganti» nella regione del Guangdong durante la Rivoluzione culturale.

Fig. 2: Uomo con una «tenuta stravagante», nel 1970

Fig. 2: Uomo con una «tenuta stravagante», nel 1970

Camicia colorata di stile Hong Kong.

Collezione privata.

Pantaloni a zampa d’elefante e culotte proletarie «tête de buffle11»

I niutouku, o pantaloni «tête de buffle» (testa di bufalo), sono portati in generale dai cinesi del sud per lavorare nelle risaie. Si tratta di una specie di pantalone sotto il ginocchio in tessuto grossolano, senza tasche né cintura ma con l’elastico in vita; la sua forma ricorda la testa di un bufalo ed è pratico per inginocchiarsi o accovacciarsi nelle risaie. Nel nord del Guangdong, i contadini Zhuang sono affezionati a questo tipo di pantaloni, che vengono indossati da entrambi i sessi. Sono anche molto diffusi nel sud del paese, dove vengono utilizzati anche come indumento intimo. Nella regione di Shanghai, viene chiamato «slip» (sanjiaoku), e Lu Xun lo cita nel suo saggio Nüdiao (Il fantasma della donna impiccata)12: «In effetti, il niutouku non è utilizzato solo dai contadini, ma si porta anche in città. Si indossa in un modo alquanto speciale: tenendo i due lati con le mani, si fa una piega a sinistra e una a destra, e poi si arrotola la parte superiore prima di annodare la cintura. La parte superiore è larga, il cavallo profondo, le gambe larghe e la lunghezza dipende dalla stagione.»13 Durante la Rivoluzione culturale, un tipo di niutouku chiamato «niutouku proletario» era in voga presso i Cantonesi. In realtà, si trattava di pantaloni di completi a gamba stretta, a zampa di elefante o di jeans, che si facevano portare dai loro parenti di Hong-Kong Macao, Taiwan o dall’estero, per tagliarli a forma di «niutoukus proletari». Le gambe dei pantaloni a zampa di elefante erano lunghe e larghe mentre quelle dei niutoukus corte e strette, e poiché il consumo di tessuto era controllato (ogni persona aveva diritto a 5,5 m all’anno), si capisce perché la popolazione del Guangdong, soggetta a questa pressione, era costretta a ridimensionare i suoi «pantaloni borghesi» nuovi per farne delle «culotte proletarie».

F., 57 anni, diploma liceale, attualmente funzionario in pensione, è stato trasferito in una brigata di produzione a Dongguan durante la Rivoluzione culturale. Questo testimone diretto ci racconta:

«Avevo un fratello e una zia a Hong-Kong e dei parenti a Macao. Tra i vestiti che mi avevano regalato, uno aveva un’etichetta in inglese sul collo. [Noi] l’abbiamo tolta. Insomma, non volevamo avere in testa una mentalità occidentale, una mentalità borghese, che ci avrebbe alla fine corrotti, facendo di noi dei «revisionisti»; per questo dovevamo, attraverso lo studio, stare sempre in guardia. Il tessuto era raro e non avremmo potuto permetterci di rifiutare un pantalone a zampa d’elefante, ne avevamo bisogno, allora lo tagliavamo. Oppure lo scucivamo interamente per rifarlo. A quel tempo avevamo un’espressione che diceva così: “rifare un niutouku per portarlo”».14

La madre e la sorella di F. hanno anch’esse tagliato dei pantaloni a zampa di elefante per farne dei pantaloni da completo più adatti allo standard cinese:

«A quel tempo, certe persone seguivano il movimento, non potevano essere come oggi, molto progressiste, quella gente non vi accettava, vi disprezzava... guardandovi storto, o vi considerava dei mascalzoni. Questa era la mentalità dell’epoca. Ad esempio, avevamo dei pantaloni a zampa di elefante. In realtà, erano pantaloni da completo ma con le gambe svasate, a forma di trombetta. Mia madre e mia sorella hanno tagliato le gambe per realizzare un pantalone da completo a gamba dritta. A quel tempo, se i vestiti provenienti dall’estero avevano delle etichette, bisognava toglierle dai colli. »15

H., 73 anni, livello di scuola primaria, responsabile di laboratorio in una fabbrica di acido solforico di Guangzhou e segretaria aggiunta del comitato di Partito al momento della Rivoluzione culturale, nell’ottobre 1969 è stata nominata funzionario di una squadra di rieducazione agricola a Conghua (Guangdong), dove è rimasta 13 mesi. Attualmente è pensionata. Ci ha riferito una storia di cui è venuta a conoscenza:

«Non l’ho visto con i miei occhi, ma qualcuno è venuto a dirmi che gli avevano tagliato i pantaloni a zampa d’elefante mentre camminava per strada. Non so come sia potuto accadere. In quel periodo, alcune persone avevano l’incarico di sorvegliare le strade e in particolare di tagliare le «tenute stravaganti», ovvero un tipo di vestiti molto corti e molto stretti, e soprattutto i pantaloni a zampa di elefante. Ma era una cosa che succedeva di rado: nella nostra grande fabbrica avevano tagliato i vestiti solo a una o due persone, perché in quel momento la gente era piuttosto onesta. In ogni caso, quelli a cui avevano tagliato i vestiti ci avevano perso la faccia e quindi non ricominciavano più.»16

La particolare situazione del Guangdong, vicino a Hong-Kong, Macao e Taiwan, ha permesso ai pantaloni a zampa d’elefante di diffondersi più che altrove tra la popolazione. Questi pantaloni sono diventati l’incarnazione delle «tenute stravaganti». Sin dalla loro apparizione, si sono scontrati con il disprezzo e l’ostilità delle «masse rivoluzionarie». Condannati ad essere additati al loro passaggio e definiti “immorali”. Portare un pantalone a zampa d’elefante era un atto politico e il segno della «ricerca di uno stile di vita borghese», «trasandato» o «ambiguo». Agli occhi di molti, quelli che li indossavano erano dei mascalzoni, delle canaglie, o quanto meno degli asociali. Il pantalone a zampa d’elefante è quasi diventato il simbolo della delinquenza giovanile.

Indubbiamente, la sua apparizione ha avuto un effetto sovversivo rispetto all’abbigliamento legittimo del tempo. Perché proprio questo, piuttosto che un altro indumento, si è ritrovato in prima linea nella guerra tra tradizione e innovazione? Vi sono tre motivi: innanzitutto, la posizione della cerniera eliminava la differenza tra uomini e donne. Prima della sua apparizione, i pantaloni da donna si aprivano tutti sul lato destro, mentre il pantalone a zampa d’elefante si apriva sempre davanti, a prescindere dal sesso. Poi, la vita bassa, il cavallo corto e il taglio aderente mettevano in risalto le linee del corpo, infrangendo le norme comuni dell’epoca che volevano vestiti piuttosto larghi e fluidi. Infine, la gamba era stretta in alto e larga in basso, progressivamente svasata a partire dal ginocchio per creare una forma a trombetta molto accentuata. A certe persone anziane, questa forma appariva androgina e contro natura.

Per questo, nel contesto politico e sociale della Rivoluzione culturale, il pantalone a zampa d’elefante, che sfidava le regole di abbigliamento in vigore, era considerato un pericolo. Le modifiche apportate a questi pantaloni da parte della popolazione dimostrano lo stretto legame tra abbigliamento, lealtà politica e appartenenza di classe. Dichiarando che le etichette dei prodotti stranieri dovevano essere tolte perché «non volevamo avere in testa una mentalità straniera, una mentalità borghese, che ci avrebbe alla fine corrotti, facendo di noi dei “revisionisti”», uno dei nostri interlocutori dimostra che un oggetto della vita quotidiana implica un’appartenenza di classe; in altre parole che vi era una stretta equivalenza tra consumi e identità sociale. D’altronde, un’interlocutrice considera che a quel tempo la gente comune era piuttosto «onesta», ovvero sottomessa alle regole di abbigliamento in vigore. Dietro questa sottomissione si nasconde il potere e il dominio assoluti delle autorità sul codice d’abbigliamento ufficiale. Infine, la sanzione sociale17 contro le «tenute stravaganti» è strettamente legata al concetto di “faccia”. «L’albero vive della sua scorza, l’uomo vive della sua faccia», dice un proverbio cinese, spiegando così la forza dissuasiva che rappresenta per i cinesi il timore di perdere la faccia.

Il diametro di una bottiglia di alcol di riso di Jiujiang18

B., 56 anni, diploma di scuola secondaria di primo grado, artista-militare durante la Rivoluzione culturale, attualmente funzionario, ci racconta:

«Durante la Rivoluzione culturale, le donne che portavano vestiti militari avevano un aspetto da rivoluzionarie, perciò le ragazze indossavano queste tenute piuttosto che le gonne. I pantaloni non dovevano essere stretti: per essere nella norma si doveva riuscire a farci passare una bottiglia di alcol di riso di Jiujiang e, se le gambe del pantalone erano strette, dovevano essere tagliate; alcuni impiegati erano incaricati di mantenere l’ordine. I pantaloni aderenti erano chiamati “mutandoni borghesi” ed erano vietati, si doveva per forza poterci infilare una bottiglia per essere veramente un indumento rivoluzionario. Per questo, le persone di entrambi i sessi portavano delle tenute militari, tipo quelle dell’Armata Popolare di Liberazione. Gli uomini trovavano che la tenuta militare dava alle donne un’aria dinamica, determinata, coraggiosa e da brave lavoratrici, molto decente e rivoluzionaria.»19

Il taglio delle gambe dei pantaloni evoca ricordi precisi a molti dei nostri interlocutori. La larghezza fissata per le gambe dei pantaloni era di circa 25 cm. Quando i membri del servizio d’ordine scoprivano dei pantaloni più stretti, li tagliavano immediatamente, poi li misuravano con una bottiglia di alcol di riso di Jiujiang che serviva da unità di misura. M., 62 anni, livello di scuola media, attualmente operaia in pensione, lavorava a quel tempo in un cotonificio del Guangzhou e si ricorda che:

«Durante la Rivoluzione culturale, c’erano delle Guardie rosse nei mercati e per strada che fermavano i passanti con i pantaloni aderenti. Era vietato portare i pantaloni stretti. Le Guardie rosse sbarravano il passo a queste persone, poi gli infilavano una bottiglia di alcol di riso nei pantaloni e, se la bottiglia non passava, venivano tagliati perché la regola imponeva una larghezza di almeno 20 o 25 cm per le gambe dei pantaloni. Le Guardie rosse si appostavano nelle strade e nei piccoli negozi. Quando vedevano delle persone che indossavano pantaloni non conformi alla regola, gli infilavano una bottiglia di alcol di riso e tagliavano le gambe dei pantaloni con le forbici se la bottiglia non passava. Tutti avevano paura e indossavano pantaloni a gamba larga.»20

Se, per caso, a qualcuno veniva voglia di portare questi vestiti stretti, era accusato pubblicamente di ricercare «un modo di vita borghese» e spesso veniva pesantemente umiliato, fino al punto a volte di suicidarsi. Z., 50 anni, livello di scuola media, nel 1971 faceva parte di una brigata di propaganda in un’azienda forestale. Dopo aver ottenuto il suo diploma di studi secondari nel 1973, ha iniziato ad insegnare in una scuola primaria di Canton, concludendo la sua carriera come operaia in una fabbrica del Guangzhou. All’inizio della Rivoluzione culturale era una scolara:

«A scuola, il nostro professore di educazione fisica si chiamava Zeng ed era una brava persona. Indossava un pantalone a tubo che gli aveva regalato uno dei suoi parenti di Hong-Kong. Ci avevano chiamato con l’altoparlante della scuola per radunarci sul campo sportivo e lì abbiamo sentito il direttore della scuola gridare: “Silenzio, state calmi! Le masse rivoluzionarie hanno detto di escludere il figlio dei proprietari fondiari ZSQ dalla nostra scuola!”. Allora, il professore Zeng è stato trascinato sulla pedana, le Guardie rosse gli hanno rasato una croce sul cranio e gli hanno fatto portare un cartello. Durante la sessione di lotta e di accuse pubbliche, gli allievi, i professori e alcune persone arrabbiate che erano state sfruttate dai suoi genitori gli gettavano l’inchiostro sul collo. In seguito, si tagliò le vene, ma fecero in tempo a salvarlo portandolo in ospedale. Un giorno, mentre gli insegnati erano convocati in Formazione durante le vacanze scolastiche, si impiccò.»21

Brigata rurale, 1968.

Brigata rurale, 1968.

Collezione privata.

Durante la Rivoluzione culturale, la popolazione era costretta a uniformare il suo stile di vita: quelli che obbedivano erano citati ad esempio, mentre quelli che resistevano o si ribellavano venivano umiliati; questa era considerata una pesante sanzione sociale. Le «tenute stravaganti» si definivano in opposizione ai vestiti «legittimi», ortodossi, che corrispondevano all’«educazione permeata dei principi del Partito». Questo segno infamante, che si traduceva in discriminazione, disprezzo e perfino persecuzione da parte di tutte le forze sociali, spingeva le persone a obbedire e a conformarsi alle regole di abbigliamento in vigore22.

Colli a scialle e fiocchi, ovvero la classe rivelata

D, 60 anni, operaio di cantiere navale a Guangzhou, attualmente in pensione. Questi sono i suoi ricordi sulle punizioni che le Guardie rosse infliggevano agli operai che osavano portare dei colli a scialle:

«A quel tempo, se si volevano indossare abiti da lavoro un po’ alla moda, si veniva considerati come feudali, borghesi e revisionisti. Quando per fortuna i nostri parenti di Hong-Kong ci portavano un indumento, c’era sempre qualcosa che non andava e bisognava ritoccarlo sette o otto volte per modificarne completamente lo stile. Se si indossava qualcosa un po’ alla moda, ad esempio un collo sciallato o un paio di jeans aderenti, succedeva una catastrofe e si veniva qualificati come feudali, borghesi e revisionisti. Le Guardie rosse arrivavano con le forbici per tagliare i pantaloni a partire dal basso fino alla coscia. Come potevamo portarli? In quel periodo, la paura ci attanagliava e non potevamo che seguire la società e fare quello che ci chiedevano.»23

C., 56 anni, livello di scuola media, attualmente in pensione, era stata assegnata a una brigata di produzione di un comune popolare del distretto di Huadu durante la Rivoluzione culturale. In seguito divenne operaia in una fabbrica del Guangzhou. Quando la Rivoluzione culturale scoppiò, C. era una studentessa; una delle sue compagne di classe indossava un abito con un fiocco che un parente di Hong-Kong le aveva regalato. Questo indumento le avrebbe portato sfortuna:

«Nella classe accanto, una compagna portava un indumento decorato con un elegante fiocco, che i suoi parenti di Hong-Kong le avevano inviato. Alcuni attivisti l’hanno sottoposta a una sessione di lotta e di accuse pubbliche. Hanno iniziato col tagliarle il fiocco, poi i capelli, in una maniera molta brutta, le hanno appeso un cartello con su scritto «delinquente» e un mucchio di gente è venuta ad accusarla, colpendola e insultandola.»24

Questo fatto ha impressionato molto la nostra interlocutrice:

«Sembra che, proprio a partire da quel momento, si siano vestiti tutti allo stesso modo. Prima, a volte, i vestiti erano un po’ più colorati, meno scuri e il loro stile poteva essere meno e stereotipato. Inoltre, quando eravamo scolare potevamo farci la coda di cavallo. Ma dopo questo incidente, ho portato i capelli corti e vestiti standard.»25

Vestito colorato in Dacron e uniforme «Lenine» da donna, nel 1970.

Vestito colorato in Dacron e uniforme «Lenine» da donna, nel 1970.

Collezione privata.

Le persone che non indossavano una tenuta militare o una tuta da lavoro attiravano facilmente l’attenzione e il sospetto, soprattutto per quanto riguardava la loro appartenenza di classe. D., 56 anni, diploma di scuola superiore, direttore di una scuola dell’infanzia, era operaio in una fabbrica di biancheria da bagno del Guangzhou nel periodo della Rivoluzione culturale, prima di essere trasferito in una squadra di produzione. Ci racconta:

«Per fare un esempio facile: se non portavi un indumento militare o una tuta da lavoro, chi eri? Per gli altri, eri un punto interrogativo! Un grosso punto interrogativo! È come quando guardiamo una serie televisiva: a parte gli abiti dei carcerati che sono un po’ speciali, i vestiti delle altre persone non hanno alcun segno distintivo. Allo stesso modo, se non porti queste due tenute, chi sei? Se non vuoi attirare l’attenzione, e non vuoi essere un punto interrogativo per gli altri, allora devi indossare uno di questi due tipi di vestiti. »26

Durante la Rivoluzione culturale, il sistema di valori che riguardava i vestiti legittimi era definito esclusivamente dallo Stato. Per mezzo dei suoi potenti meccanismi di propaganda e di educazione dell’opinione pubblica, nonché del suo sistema di rigida gestione burocratica a tutti i livelli, lo Stato infliggeva una dura sanzione sociale a quelli che osavano o desideravano portare «tenute stravaganti». Per questo motivo, la gente comune adottava unanimemente una tenuta «legittima» nel modo di vestire quotidiano, per costruirsi un’appartenenza di classe di cui mancava o che aveva bisogno di manifestare o di amplificare, e per mostrare la propria sottomissione al codice d’abbigliamento «legittimo». In questo modo lo Stato, attraverso un ente apposito, realizzava l’integrazione sociale.

Pantaloni bianchi: pantaloni da canaglia

I pantaloni che portavano gli abitanti del Guangdong durante la Rivoluzione culturale erano generalmente blu, grigi o neri, a volte beige, ma di solito a tinta unita e di colore scuro. Se qualcuno indossava un pantalone chiaro, si distingueva facilmente in mezzo a una marea di colori scuri. F., 57 anni, diploma liceale, attualmente in pensione, era stato inviato presso una squadra di produzione a Dongguan. Ci racconta:

«Soltanto le camice erano bianche, non c’erano pantaloni bianchi, nessuno portava il bianco. Se qualcuno indossava un pantalone bianco, come dire? Aveva un’aria borghese. Il minimo stile occidentale vi trasformava in un borghese, una specie di “canaglia”.»27

Durante la Rivoluzione culturale, gli individui che discendevano da una classe considerata sbagliata, si trasformavano scrupolosamente, stando molto attenti a prendere le distanze dal feudalesimo, dalla borghesia e dal revisionismo al fine di aumentare il proprio «indice di sicurezza». Nel suo romanzo Dieci anni di cento persone, Feng Jicai racconta in particolare la storia di un insegnante proveniente dall’alta borghesia:

«Mi interrogo ogni giorno su tre punti, e quasi ogni giorno mi domando che cosa ho detto o fatto per mettermi contro i dirigenti: se ho fatto qualcosa, credo che il mio indice sia diminuito. Ma se quello che ho detto o fatto oggi mi è valso un complimento da parte dei dirigenti, credo che il mio indice sia aumentato, e provo un sentimento di stabilità, affidabilità e sicurezza.»28

Il sentimento di sicurezza di ogni individuo dipendeva dal comportamento e dal controllo dei dirigenti; infatti il dominio dello Stato attraversava tutti i livelli per infiltrarsi persino nella vita quotidiana degli individui, costretti all’autocritica permanente. Prima della Rivoluzione culturale, questo insegnante aveva dei pantaloni da completo bianchi, che aveva indossato una volta sola in occasione di un grande ricevimento per la Festa delle lanterne. Li trovava molto belli, ma «in seguito scoprì che quei pantaloni rappresentavano una coscienza di classe borghese repressa, che lui doveva imperativamente impedire al male di emergere, sopprimendolo all’origine, e perciò quei pantaloni bianchi rimasero appesi nell’armadio e non ne uscirono più fino a quando gli vennero confiscati durante una perquisizione della Rivoluzione culturale.»29 Da ciò, ricavò la formula di calcolo deIl’«indice di sicurezza»: «Ottenimento dell’apprezzamento dei dirigenti grazie al mio lavoro zelante in seno all’unità + abbigliamento più comune possibile + prudenza nelle parole e negli atti = indice di sicurezza.»30

Durante il periodo rivoluzionario, l’immagine artificiale dell’abbigliamento è una limitazione, ad opera dell’ideologia di Stato, dell’individualità e della possibilità di estetiche diverse e molteplici. In questo senso, il codice d’abbigliamento implica una componente di esclusione.

Occorre qui sottolineare che a causa dell’impossibilità per la maggioranza delle persone intervistate di datare con precisione l’apparizione delle tenute considerate alternative, nonché delle carenze delle altre fonti sull’argomento (cronaca locale e archivi), l’indagine su tale questione dovrà essere approfondita per poter tracciare un quadro temporale della comparsa delle «tenute stravaganti» nel Guangdong.

RIEDUCARE LA MODA

base a quale norma una tenuta era giudicata «stravagante» nel Guangdong degli anni ‘60 e ‘70? Un articolo del Yangsheng Evening News del 10 giugno 1964 – firmato da un «Gruppo di studio tecnico sull’abbigliamento di Guangzhou» e intitolato «Che genere di vestiti si devono considerare come “tenute stravaganti”?» - tenta di definire le grandi linee:

«Esempio: nell’abbigliamento femminile, le scollature che espongono il petto, le maglie che espongono le spalle, le gonne a tubo che fasciano i glutei e gli altri vestiti che intenzionalmente stringono troppo i fianchi ed espongono il petto sono considerati tenute stravaganti. Analogamente, nell’abbigliamento maschile, i jeans e le camicie a fiori che danno un aspetto ambiguo. Questi vestiti bizzarri hanno come caratteristiche comuni, da un lato di incitare al flirt e di eccitare i sensi, dall’altro di essere dannosi per la salute e di ostacolare i movimenti dell’organismo. Inoltre, tutte queste tenute stravaganti sono copiate dall’Occidente e sono contrarie al nostro stile socialista diligente, semplice e profondamente legato al lavoro. »31

Quali erano le componenti sociali che sorvegliavano l’applicazione di questa norma e quali erano quelle che dovevano essere sanzionate o rieducate? Durante la Rivoluzione culturale, la popolazione era suddivisa dall’autorità politica in tre gruppi. Secondo il comitato rivoluzionario provinciale del Guangdong, il primo gruppo, ovvero le «cinque categorie rosse», era composto dai soldati rivoluzionari, i funzionari della rivoluzione, gli operai, gli agricoltori poveri, gli agricoltori medio-poveri e i loro figli. Il secondo gruppo, i «nove tipi di persone» o «nove categorie nere» era composto, al contrario, da elementi catalogati come «proprietari fondiari, ricchi agricoltori, controrivoluzionari, cattivi elementi o gruppi di destra», i detenuti che avevano scontato la loro pena, le persone uscite dai campi di lavoro e di rieducazione, i reazionari delle classi lavorative e gli imprenditori delinquenti. Infine, il terzo gruppo, le «cinque categorie grigie», designava le persone che si trovavano tra i due gruppi precedenti, nonché i loro figli, ed era costituita principalmente da impiegati, venditori, medici, insegnanti, giornalisti, piccoli commercianti e professionisti indipendenti, assimilati alla categoria economica e politica della «piccola borghesia32». Ovviamente, le «cinque categorie rosse» erano la massima autorità nel giudicare e nel decidere in merito alla conformità o alla devianza dell’abbigliamento quotidiano degli altri due gruppi.

Quindi, l’abbigliamento «legittimo» proclamato e definito dallo Stato designava i vestiti dei funzionari della macchina statale, nonché delle classi sociali di base sulle quali si appoggiava: i vestiti degli operai, dei soldati dell’EPL e dei contadini, ovvero tenute militari, tutti i tipi di collo Mao, tute da lavoro e vestiti da contadino. E doveva soddisfare tre criteri: essere utile alla rivoluzione, essere utile al lavoro e promuovere la semplicità, l’ordine e l’uniformità nel lavoro.

Vestiti Jiangqing, nel 1970

Vestiti Jiangqing, nel 1970

Collezione privata.

1690 lettere o la disciplina politica

La repressione non avveniva solo in strada, con le bottiglie di alcol di riso di Jiujiang in mano. Ma ha assunto diverse forme tra cui, per prima, la repressione politica. Di certo, si esprimeva con la repressione delle «tenute stravaganti», ma anche attraverso l’attuazione di un’«estetica puramente politica» e l’incitazione diretta nei confronti delle masse a lottare contro le «tenute stravaganti».

Così, il 7 giugno 1964, un articolo a pagina 2 del quotidiano Jiefang Ribao, intitolato «Rifiutiamo fermamente di confezionare delle tenute stravaganti – Gli impiegati del negozio di abbigliamento Gaomei hanno il coraggio di proteggere i buoni costumi della società» era pubblicato sotto forma di una lettera dei lettori. Questo articolo costituiva una discussione e una critica sulle «tenute stravaganti». La discussione partiva da una controversia sullo stile di un vestito. A maggio 1964, una cliente del negozio Gaomei di Shanghai aveva ordinato un paio di pantaloni aderente sui glutei e stretto sulle gambe, e il personale aveva rifiutato di confezionarlo. La cliente allora aveva chiesto con un tono di rimprovero: «Non mi venite a dire che un paio di pantaloni riflette un pensiero borghese e che potrebbe influenzare i costumi?!», scatenando una disputa. Un impiegato del negozio aveva allora scritto al Jiefang Ribao, dichiarando: «Riteniamo che il personale del negozio Gaomei abbia agito correttamente, che questa situazione critica sia stata gestita bene e che, nella nostra società socialista, non dobbiamo lasciare riapparire le tenute stravaganti della vecchia società.» Il giornale aveva pubblicato la lettera aggiungendovi un commento della redazione: «Non si tratta solo di una piccola questione su come considerare uno stile di abbigliamento, ma di un problema importante che consiste nel sapere se dobbiamo resistere o no alla mentalità e al modo di vivere borghesi. Non è assolutamente un argomento da trascurare!» L’articolo concludeva esortando i lettori a scrivere al giornale e a partecipare alla discussione per fissare dei limiti ai gusti personali sull’abbigliamento «nella nostra società socialista33».

La pubblicazione di questa lettera suscitò immediatamente un ampio dibattito sulle «tenute stravaganti». Moltissimi operai, impiegati dei comuni popolari, funzionari dell’amministrazione, venditori, soldati, insegnanti, studenti e gente del popolo scrissero per esprimere la loro opinione. Nei quattro mesi che seguirono l’uscita dell’articolo34, il Jiefang Ribao pubblicò in tutto 1690 lettere sull’argomento. Numerose unità del Partito e della Gioventù comunista si interessarono al dibattito attraverso riunioni di studio, discussioni, giornali scritti a mano sulla lavagna o giornali murali al fine di stabilire dei parametri ed elevare il loro livello di coscienza35. Nelle lettere, molti lettori dichiaravano che le «tenute stravaganti» erano degli oggetti borghesi; le tenute dal taglio bizzarro si addicevano al modo di vita dissoluto e degenerato della classe sfruttatrice e oziosa e delle persone con attività losche e desideri vani e decadenti. Al contrario, il popolo dei lavoratori amava i vestiti economici e robusti, comodi e pratici, semplici e di buon gusto.

Questa critica delle «tenute stravaganti», che sottolineava e rafforzava il carattere rivoluzionario e il significato politico dell’abbigliamento, si diffuse rapidamente in tutto il paese per formare un fronte compatto di tutta la popolazione. Nei suoi editoriali, il Jiefang Ribao dichiarava che le attività commerciali del socialismo erano attività economiche profondamente politiche. I commercianti dovevano considerare in primo luogo la dimensione politica del loro lavoro, promuovere una morale e uno stile di vita nuovi attraverso le loro attività di acquisto e vendita di prodotti e i loro servizi, e distruggere le vecchie abitudini grazie all’apporto di novità. Questa propaganda potente generò una profonda impressione sull’opinione pubblica:

«Alcuni, ricorda C., osano rivelare la loro personalità nel modo di vestirsi, altri non osano, e questo provoca dibattiti e critiche in seno all’opinione pubblica, o forse tra i capi famiglia, che sono molto conservatori; perché l’incessante dibattito pubblico accusa la gente che porta quelle che vengono definite “tenute stravaganti”, che fasciano i glutei o con le gambe dei pantaloni strette, di essere “gente cattiva”; questo strano fenomeno era una novità a quel tempo.»36

Per tale motivo, le «tenute stravaganti» erano accusate di rappresentare concretamente la ricerca di un «modo di vita malsano» e di essere la manifestazione volgare di un «pensiero borghese decadente e vuoto». Questo grande dibattito di massa può essere considerato come lo spartiacque della moda: a partire da quel momento, le «tenute stravaganti» cominciarono a scomparire dalla vita quotidiana cinese.

Le «masse» diventavano sempre più efficaci nella repressione della stravaganza quanto più erano invitate a farlo nel nome della lotta di classe. Secondo un articolo del 23 agosto 1966 del Quotidiano del Popolo, le Guardie rosse che avevano occupato le strade dal 20 agosto, distribuivano volantini e affiggevano manifesti dappertutto, organizzando assemblee e pronunciando discorsi violenti contro le mentalità, gli usi e i costumi del passato. Inoltre, esortavano gli impiegati del settore dei servizi a non praticare più tagli di capelli o di vestiti stravaganti ai loro clienti. Tutti gli impiegati del negozio di moda Cielo Blu – che aveva modificato la sua insegna in «Negozio di vestiti Difesa dell’Oriente» – scrivevano in una lettera indirizzata alle Guardie rosse:

«Rispondiamo con determinazione alla vostra esortazione rivoluzionaria, approviamo totalmente l’azione rivoluzionaria delle Guardie rosse del liceo No2 di Pechino contro la confezione di vestiti nello stile di Hong-Kong e di tenute stravaganti, e ci impegniamo a non modificare né a vendere tali vestiti. Diamoci tutti la mano e portiamo la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria verso una nuova fase ancora più profonda ed estesa.»37

Sulla porta di alcuni negozi di abbigliamento, erano incollate due frasi parallele, piene di fervore rivoluzionario: «Confezione di vestiti rivoluzionari: molti, presto e bene – Distruzione di tenute stravaganti: molte, presto e bene», e una striscia orizzontale dichiarava: «Viva il proletariato, abbasso la borghesia».38 Con questa atmosfera, le Guardie rosse si abbandonavano ad atti verbali e fisici contro le «tenute stravaganti» in nome della distruzione dei «quattro vecchiumi». La «lotta verbale» si esprimeva con critiche teoriche e l’educazione politica. Il Quotidiano del Popolo paragonava le tenute devianti al «nuovo orientamento della lotta di classe», alle «tendenze malsane e alle cattive pratiche della borghesia», alle «lotte della giovane generazione», alla «negazione delle gesta delle Guardie rosse» … Per contrastare i discorsi che sorgevano tra la popolazione – «dettagli senza importanza della vita quotidiana», «nessun diritto di intervenire», «inutile e inoffensivo», «i gusti sono gusti», «a forza di vederne ci si abitua» oppure «molto rumore per nulla» –, si organizzavano «classi di studio speciali», «riunioni di lotta sul posto» oppure «piccoli dibattiti sui dazibao». Per quanto riguarda la «lotta fisica», questa dava luogo a molti atti estremi. Qualsiasi vestito non conforme alla norma statale esponeva colui che lo indossava ad essere attaccato. Attraverso il livello di potere locale, lo Stato esercitava su coloro che osavano indossare delle «tenute stravaganti» aggressioni e minacce, colpi e insulti, umiliazioni, tagli delle gambe dei pantaloni e dei vestiti... Nei racconti di molte persone intervistate, abbiamo ascoltato le storie di «attivisti» che si appostavano all’uscita dei luoghi di lavoro, per misurare con una bottiglia la larghezza delle gambe dei pantaloni di giovani impiegati. E i casi in cui le Guardie rosse esercitavano la forza non erano rari.

Inoltre, la propaganda dei media aveva un’influenza importante. Solo la teoria rivoluzionaria e «l’estetica puramente politica» erano diffuse dalla macchina di propaganda del Partito, gli altri sistemi di valori venivano violentemente denigrati. Il discorso dominante modellava i desideri consumistici, in particolare dei giovani e degli adolescenti. In tali condizioni, gli individui comuni che accettavano completamente o subivano l’influenza di questi discorsi, consapevolmente o meno, diventavano i portaparola e i difensori di questo sistema di valori, tanto più quando si trattava di lavoratori modello.

Razionamento e ascetismo o la soddisfazione dei bisogni

Sotto la Rivoluzione culturale, lo Stato esercitava un forte condizionamento sui consumi individuali, che si manifestava attraverso una definizione politica dei “bisogni” della popolazione.

Con l’avvento della nuova repubblica, gli obiettivi strategici del governo cinese definirono l’industrializzazione, principalmente l’industria pesante, come una priorità economica39. Per mettere in atto questa strategia, lo Stato adottò il collettivismo della produzione e l’ascetismo dei consumi40. Dopo il 1949, il collettivismo strutturò progressivamente la vita sociale diventandone una delle sue caratteristiche. La vita politica ed economica del Partito e dello Stato si concentrò sul modo di promuovere e di realizzare la collettivizzazione, di accrescere la quota dei beni nazionali nella produzione e nella vita quotidiana, nonché di promuovere un modo di vita collettivista. Per incoraggiare l’ascetismo nei consumi, lo Stato pretese che la società riducesse all’estremo i suoi desideri e la domanda di consumo individuale per privilegiare i bisogni umani di base.

Tra la nuova repubblica e la politica di apertura e di liberalismo degli anni ‘8041, la Cina conobbe così una fase in cui i “bisogni” rientravano in una forma di nazionalismo. Durante la Rivoluzione culturale, i problemi dei “bisogni” erano problemi politici, di ordine politico, e subivano il duplice dominio del potere e del discorso di Stato. La soddisfazione dei bisogni doveva essere una delle fonti di legittimità di uno Stato onnipresente e al contempo uno dei suoi mezzi per unificare le masse.

I dati relativi al consumo di vestiti e tessuti nel Guangdong permettono di comprendere l’attuazione di tale politica. Iniziamo dal tessuto di cotone. Il 15 settembre 1954, sulla base di una decisione del Consiglio di Stato, il Guangdong adottò la distribuzione pianificata dei tessuti di cotone. Secondo le «Cronache commerciali dei prodotti manifatturieri di consumo quotidiano» della Guangzhou difangzhi (Gazzetta di Guangzhou), la totalità dei tessuti di cotone e dei prodotti derivati, di qualsiasi colore, fantasia e qualità, ad uso pubblico o destinati ad eventi che necessitano un surplus di tessuto – nascite, matrimoni, decessi, catastrofi naturali… – doveva essere fornita secondo le quantità fissate e in cambio dei bollini della tessera annonaria. La razione fissata il primo anno era di 11,32 m per i funzionari, 8,7 m per i cittadini e 7 m per i contadini della zona suburbana. Poiché, a partire dal 1960, il governo aveva deciso di raggruppare gli acquisti e le vendite di maglieria, calze e cotone, la quantità di tessuto assegnata è stata notevolmente ridotta dal 1961 al 1965, fino ad arrivare a 70 cm per i cittadini e a 50 cm per i contadini della zona suburbana. Tali razioni permettevano appena di confezionare una maglietta da bambino. In seguito, tra il 1965 e il 1967, la produzione è aumentata. La Rivoluzione culturale ha anche fatto crollare la produzione di garza, la cui razione nel 1968 era di 2,76 m. La quantità di 5,5 m citata più volte nelle testimonianze corrisponde al periodo 1969-1978, lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di cotone si era infatti progressivamente ridotto a partire dagli anni ‘7042.

Sempre secondo i dati delle «Cronache commerciali dei prodotti manifatturieri di consumo quotidiano», tute sportive, maglieria intima e pantaloni di cotone, maglie di cotone, coperte tessute, coperte in lana, biancheria da bagno, pigiami e lenzuola (razionati dal 1955) vennero forniti a partire dal 15 agosto 1960 in cambio dei bollini della tessera annonaria. Nel marzo 1961, anche gli asciugamani, le calze e le canottiere furono razionati e altri piccoli articoli come il filo per cucire, i fazzoletti e le coperte di cotone. Il numero dei bollini necessari era calcolato in base alla dimensione degli articoli, al contenuto di cotone, alla qualità e densità, al peso e alle loro caratteristiche. Nel 1964, la provincia del Guangdong stabilì una norma di razionamento per maglieria e calze, ovvero 83 cm per una T-shirt, 60 cm per una canottiera, 1,8 m per una tuta sportiva in cotone, 2,83 m per una tuta sportiva in pile, 37 cm per un asciugamano che pesava tra 730 e 875 g o un paio di calze da adulto e 5 m per un lenzuolo di un letto di 2 m. Una riduzione del 30 % sui bollini veniva concessa ai prodotti di terza qualità, poiché i tessuti misti erano calcolati secondo il loro contenuto di cotone. Le regole di razionamento sono cambiate nel corso del tempo. Grazie a un’offerta maggiore, la quantità dei prodotti razionati diminuì progressivamente e, di conseguenza, la quantità dei bollini richiesti per prodotto43.

Fotografia ricordo di tre collaboratori (L.  sinistra) nel 1969 a Parigi.

Fotografia ricordo di tre collaboratori (L.  sinistra) nel 1969 a Parigi.

Collezione privata.

Una testimonianza descrive l’influenza di questi vincoli statali sui consumi quotidiani dei cittadini. L., indonesiano cinese, tornato in Cina all’età di 14 anni per proseguire gli studi, era interprete di francese per una squadra di cooperanti dell’industria edilizia. Nel 1969, di ritorno dal Congo, fece scalo a Parigi e visitò la capitale francese accompagnato da alcuni membri dell’Ambasciata cinese. La fotografia è stata scattata in inverno, con un tempo gelido. I cooperanti, che erano partiti per un paese tropicale, non si erano portati dietro indumenti pesanti. I cappotti dei tre cooperanti (L. a sinistra) erano stati prestati loro dall’Ambasciata. Rientrati in Cina, la loro unità requisì i cappotti per consegnarli al Ministero degli Affari esteri. Nessun elemento straniero doveva perturbare il sistema di abbigliamento e il volume dei consumi.

Questa storia, così come i dati summenzionati, dimostra il controllo dei consumi sia su scala industriale che individuale. La politicizzazione radicale dell’abbigliamento quotidiano lasciava pochissimo spazio alle «tenute stravaganti». Sostanzialmente, i sistemi di razionamento e di distribuzione erano il mezzo con cui lo Stato stabiliva con precisione, a monte, i bisogni fondamentali della popolazione e, a valle, la natura dei beni destinati a soddisfarli. I razionamenti erano un mezzo per conseguire gli «obiettivi della rivoluzione».

«Spietato come un rigido inverno» o il regno dell’ideologia

Risulta ormai evidente che durante la Rivoluzione culturale la popolazione viveva in un clima di paura e violenza. Secondo Xu Ben, la Rivoluzione culturale si è servita della lotta di classe per mobilitare la società: «Dopo l’instaurazione del nuovo sistema politico nel 1949, i livelli di potere nella società, il rapporto col nemico, le opportunità sociali, la distribuzione dei privilegi e i rapporti di oppressione nelle relazioni personali erano tutti definiti in termini di classe.»44 La società intera era immersa in un’ideologia dell’antagonismo45, la cui caratteristica più importante fu l’apparizione di una profonda frattura tra “noi” e “il nemico”. Da un lato, per il Partito e lo Stato, “noi” dovevamo ubbidire senza condizioni e offrire una lealtà assoluta; dall’altro, qualsiasi tipo di coesistenza tra “noi” e “il nemico” era impossibile.

La società cinese sembrava allora costituita semplicemente da “buoni” e “cattivi”. E poiché il popolo non poteva avere elementi “cattivi” tra le sue fila, non si trattava di esseri umani ma di «demoni bovini e reincarnazioni di serpenti», di «cani», di «insetti velenosi», di «mucchi di escrementi di cane disprezzati dal genere umano»… L’unico sentimento possibile nei loro confronti era un profondo odio: «bisogna essere crudeli e spietati come un rigido inverno», «essere senza pietà persino quando sono a terra». Quindi non meritavano altro che «essere rasati per metà del cranio», portare dei cartelli, essere costretti a inginocchiarsi, subire sessioni di accuse pubbliche, essere rinchiusi nelle «stalle»; «non possiamo trattarli con dolcezza, amabilità, rispetto, moderazione o indulgenza», si affermava, ma bisognava «distruggerli decisamente, profondamente, completamente». Questa lotta di classe senza limiti ha permesso di passare dalle parole ai fatti e di legittimare la violenza.

In una situazione tale, l’individuazione dei “cattivi” non poteva che creare un clima di terrore onnipresente. Additati alla pubblica riprovazione, vivevano nella disperazione, con un senso di colpa da espiare e una mancanza di sicurezza senza pari. I “cattivi” dovevano prendere tutte le precauzioni possibili, prigionieri dei loro rapporti sociali e minacciati dalla prossima ondata che avrebbe colpito loro e la loro famiglia. E quando la disgrazia arrivava, non potevano fare altro che riconoscere le loro colpe, confessare gli errori e subire le sessioni di lotta e pubblica denuncia46.

Man mano che la Rivoluzione culturale si sviluppava, la paura era alimentata da un nuovo fattore: la crescente confusione tra gli elementi delle classi sociali “cattive” e i malfattori. In tali circostanze, il minimo passo falso o pettegolezzo su di voi poteva trasformarvi in un “controrivoluzionario”, con il rischio di essere punito alla prossima occasione. Sensazione di insicurezza e sospetto sono diventati una caratteristica di questo periodo47. La vita quotidiana doveva essere per la popolazione l’ambito principale della «coscienza permanente della lotta di classe», dell’attuazione di una «trasformazione rivoluzionaria» e dell’«autoaffermazione». In questa situazione, l’abbigliamento quotidiano aveva necessariamente un valore simbolico e politico particolare.

Innanzitutto, le «cinque categorie rosse», e in particolare i militari, gli operai e i contadini, e i loro figli, mostravano direttamente la loro appartenenza di classe e la loro tendenza rivoluzionaria indossando tenute militari, tute e abiti da lavoro semplici e lontani dallo «stile borghese». Per paura, convinzione o interesse, si conformavano al codice di abbigliamento in vigore.

Uomo in abiti da lavoro, in una riunione pubblica, 1967.

Uomo in abiti da lavoro, in una riunione pubblica, 1967.

Collezione privata.

In secondo luogo, l’abbigliamento era considerato come uno strumento di costruzione dell’orientamento rivoluzionario. Gli individui che appartenevano per origine familiare alle categorie «nere» e «grigie» sceglievano e prendevano a modello le cinque «categorie rosse» nel loro modo di vestirsi, creandosi così un «aspetto» rivoluzionario imitando i modelli del regime. Questa «sottomissione forzata» si rifletteva in modo obliquo e indiretto su tutto l’abbigliamento quotidiano degli individui.

Infine, l’atteggiamento nei confronti delle «tenute stravaganti» permetteva di distinguersi facilmente dalle persone che le portavano e di manifestare la propria lealtà al regime. Le tenute “stravaganti”, ovvero l’affermazione della propria personalità attraverso una ricerca estetica, sono state soggette a una dura sorveglianza48. Uno degli obiettivi della Rivoluzione culturale era di formare la mentalità rivoluzionaria. Si trattava quindi in gran parte di una «rivoluzione morale» che doveva istituire una morale proletaria. Per quanto riguarda le donne, se la loro tenuta era «eccentrica» o «bizzarra», venivano considerate «vestite in modo scioccante», «troppo appariscenti», «immorali», «troppo volgari», «civettuole», «vanitose» o «ostentavano il loro fascino» e quindi non erano che delle «seduttrici» e delle «borghesi», caratterizzate da una «grave mentalità borghese», «o addirittura avevano scelto la strada del capitalismo».

Essere sempre sotto accusa per una tenuta non conforme generava un clima di terrore in tutta la società. «L’ideologia rivoluzionaria della Rivoluzione culturale è stata concepita dallo Stato e realizzata dal suo apparato per mezzo della violenza e del terrore», nota Xu Ben49. La Rivoluzione culturale è nata inizialmente come un movimento di massa, un movimento di «pulizia completa delle mentalità», di purificazione dei modelli di pensiero e dei sistemi di valori. Attraverso questa «pulizia» generale, il potere ha cercato di sradicare le idee e le azioni «feudali», «borghesi» e «revisioniste», di riformare l’«eterodossia» e l’«alterità» affinché, in Oriente, la Cina socialista potesse favorire l’avvento di un uomo socialista nuovo, integro e perfetto, costruendo un universo di Grande Armonia puro e ideale dall’unione del romanticismo e del realismo rivoluzionari.

L’abbigliamento non è solo un linguaggio silenzioso, è anche una manifestazione politica e quindi un mezzo per dettare le regole della vita quotidiana. È uno dei risultati della disciplina imposta dallo Stato: i vestiti degli individui possono formare o modificare l’identità di chi li porta e diventare quindi uno strumento di costruzione della memoria e della coscienza collettive nonché dell’immagine di sé. L’immagine vestimentaria, incarnando lo «spirito dell’epoca»50, contribuisce a creare nella popolazione un sentimento di grandezza, di identificazione e di appartenenza a una nazione e a una classe sociale, e a compattare uno strato sociale, al prezzo dell’esclusione delle tenute «stravaganti» sinonimo di «devianza».

*

Sotto la Rivoluzione culturale, il domino dello Stato inglobava tutti gli aspetti della vita quotidiana. Lo Stato, controllando e utilizzando gli strumenti della propaganda, spaventava la popolazione con la violenza e il terrore rivoluzionari, incoraggiando allo stesso tempo un ideale e una morale collettivi, per propagare dall’alto verso il basso un’ideologia secondo cui «la lotta di classe è superiore a tutto», «la rivoluzione è al di sopra di tutto» e per dominare sia la vita collettiva che individuale, allo scopo di spingere i membri della società a unificare le loro mentalità, ad escludere qualsiasi pensiero o atto eterodosso, realizzando così un’unione efficace della società tramite un codice di abbigliamento. Nella pratica, questa volontà si è espressa nella lotta contro le «tenute stravaganti», che è sfociata in dieci anni di strana uniformità dell’abbigliamento51.

In questa particolare situazione sociale, l’abbigliamento era un mezzo importante per posizionarsi socialmente, poiché la conformità nel modo di vestire offriva all’individuo una legittimità diretta52; era anche un modo concreto di attuazione del potere, perché offriva all’individuo una legittimità strutturale; ed infine, era un mezzo efficace di sanzione morale, perché offriva all’individuo una legittimità culturale. In questo modo, lo Stato controllava abilmente gli individui tramite dispositivi disciplinari, al contrario di ciò che avveniva con le «tenute stravaganti» che rientravano piuttosto nell’ambito della coercizione politica, della limitazione dei consumi e del controllo mentale.

Attualmente, gli studi universitari sulla diffusione e il dominio del potere e dell’ideologia di Stato nella vita quotidiana durante la Rivoluzione culturale sono rari, ancora più rari quelli sull’abbigliamento. Quale posto occupano agli occhi degli storici i piccoli dettagli della vita quotidiana della gente comune? La nostra riflessione, che fa seguito ad altri lavori, costituisce solo un primo passo in questo campo per la storia della Cina52.

Sotto l’influenza dell’analisi strutturale e della svolta post-moderna, gli studi culturali occidentali si interessano alle relazioni tra cultura e potere. Nella Cina degli anni ‘60, lo Stato ha fatto dell’abbigliamento «legittimo» e della repressione contro le «tenute stravaganti» un simbolo e un segno della sua capacità di influenza sul quotidiano. Ma, da un altro punto di vista, questa logica è stata parzialmente, e in maniera creativa, utilizzata dalla popolazione come mezzo di difesa personale53. La presente ricerca ha sottolineato il controllo statale ma, indubbiamente, molte persone sono rimaste relativamente indipendenti e non hanno mai cessato di lottare contro tale influenza, e ciò è dimostrato dall’esistenza stessa delle «tenute stravaganti».

Anche se in questa occasione non abbiamo avuto il tempo di analizzare le strategie e gli atti di resistenza della popolazione cinese di fronte a questo terremoto politico, non bisogna sottovalutarli. Perciò, una nuova analisi della Rivoluzione culturale dal punto di vista della vita quotidiana può aprire nuove prospettive, anche politiche, su quel periodo.

1 «Wuchanjieji Wenhua Dageming langchao xijuan shoudu jiedao “Hongweibing” menglie chongji zichanjieji de fengsu xiguan» («L’ondata della Grande

2 Xu Ben “Wenge” zhenzhi wenhua zhong de konju yu baoli Il terrore e la violenza nella cultura politica della Rivoluzione culturale, sito Xueshu

3 Dopo la fine della Rivoluzione culturale, tra il 1979 e il 1980, gli ambienti letterari e artistici della Cina continentale lanciarono un primo

4 Hu Deping, Yaobang tongzhi ruhe kan xiaofei – jue bu neng «hao mei er wu Xishi» (Punto di vista del compagno Yaobang sui consumi – non si può «amare

5 Turner, “The Social Skin”, in C. B. Burroughs & J. Ehrenreich (dir.), Reading the Social Body, Iowa City, University Iowa Press, 1993, p. 15-39.

6 Xiao Fengxia, «Zhongguo jiyuan: beifu lishi nang kuaisu qianxing – ping youguan Zhongguo dangdai shehui shenghuo de san bu zhuzuo» («Inizio di un’

7 A causa dei limiti imposti da numerosi fattori quali la capacità produttiva e il livello tecnico del paese, poche persone si potevano permettere di

8 Norman K. Denzin, “The Comparative Life History”, in Norman Denzin (réd.), The Research Act, McGrawHill, New-York, 1978, p. 214-255.

9 Nicolas Herpin e Liliane Kasparian, Les dépenses d’habillement en 1983-84, Premiers résultats, Collections de l’INSEE, no 48, 1985, p. 6-22.

10 Jin Dalu, «Chong “wu” de shenmei jiqi tuibian» («L’estetica della venerazione del “guerriero” e le sue mutazioni», Shehui guancha, no 5, 2006.

11 Secondo un proverbio cantonese, «culotte testa di bufalo, dominio del mondo» significa che si è pronti ad accettare una vita estremamente dura per

12 Il testo originale di Lu Xun è il seguente: «Gli spettatori trattenevano il fiato, un uomo spuntò sulla scena vestito soltanto con una culotte “

13 Il testo originale di Lu Xun è il seguente: «Gli spettatori trattenevano il fiato, un uomo spuntò sulla scena vestito soltanto con una culotte “

14 Intervista di F. registrata il 13 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

15 Idem.

16 Intervista di H. registrata il 2 novembre 2006 a Guangzhou dall’autore.

17 Vedere Malcom Waters, Modern Sociological Theory, Londres, Sage Publications, 1994, p. 145 della traduzione cinese (Xiandai shehui lilun, tradotto

18 Il nome cantonese di questi pantaloni aderenti è quello di una specialità di salsiccia locale, e l’unità di misura della larghezza dei pantaloni

19 Intervista di B. registrata il 7 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

20 Intervista di M. registrata il 21 aprile 2006 a Guangzhou dall’autore.

21 Intervista di Z. registrata il 10 aprile 2006 a Guangzhou dall’autore.

22 Zhu Cenlou, «Cong shehui, geren yu wenhua de guanxi lun Zhongguoren xingge de chigan quxiang» («Orientamenti del sentimento di vergogna nel

23 Intervista di D. registrata il 6 settembre 2006 a Guangzhou dall’autore.

24 Intervista di C. registrata il 19 agosto 2005 a Guangzhou dall’autore.

25 Idem.

26 Intervista di D. registrata il 3 ottobre 2006 a Guangzhou dall’autore.

27 Intervista di F. registrata il 13 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

28 Feng Jicai, Yi bai ge ren de shi nian (tradotto e pubblicato in inglese con il titolo Ten Years of Madness), Shidai Wenyi Chubanshe, Changchun

29 Idem.

30 Idem.

31 Guangzhou Fuzhuang Jishu Xuexizu (Gruppo di studio tecnico sull’abbigliamento di Guangzhou), «Shenmeyang de yifu suan shi qizhuangyifu» («Che

32 Rao Zhanxiong, et al. (réd.), Guangzhou shi DashijiZhonghua Renmin Gongheguo shiqi 1966 nian (Gazzetta di Guangzhou, cronaca degli eventi

33 Gu Zhihui, «Jianjue jujue zaizhi qizhuangyifu ‒ Gaomei Fuzhuang dian zhigong yongyu baohu shehui hao fengqi» («Rifiutiamo fermamente di

34 «Shanghai guangda renmin jiji canjia dizhi qizhuangyifu de taolun fayang wuchanjieji youliang chuantong fandui zichanjieji sixiang zuofeng» («La

35 Durante alcune discussioni, dei giovani marginali sull’orlo della decadenza e che avevano per qualche tempo desiderato le «tenute stravaganti»

36 Intervista di C. registrata il 27 ottobre 2006 a Guangzhou dall’autore.

37 «Wuchanjieji Wenhua Dageming langchao xijuan shoudu jiedao “Hongweibing” menglie chongji zichanjieji de fengsu xiguan» («L’ondata della Grande

38 Idem.

39 Lin Yifu, et al., Zhongguo de qiji (Il miracolo cinese), (versione ampliata), Shanghai Sanlian Shudian, Shanghai Renmin Chubanshe, 2004, p. 28-38.

40 Wang Ning, Cong kuxingzhe shehui dao xiaofeizhe shehui: Zhongguo chengshi xiaofei zhidu, laodong jili yu zhuti jiegou zhuanxing (Dalla società

incitamento al lavoro e trasformazione della

41 Xu Ben, «“Xuyao” zai Zhongguo de zhengzhi zhuanxing he lilun kunjing» («I “bisogni” nei cambiamenti della politica cinese e la difficoltà della

42 Mai Shaoping (réd.), Guangzhou shizhi – riyong gongyepin shangyezhi (Gazzetta di Guangzhou, cronaca commerciale dei beni di consumo quotidiano)

43 Idem.

44 Xu Ben “Wenge” zhenzhi wenhua zhong de konju yu baoli Il terrore e la violenza nella cultura politica della Rivoluzione culturale, sito Xueshu

45 Idem.

46 Idem.

47 Idem.

48 La letteratura, la poesia, l’opera rivoluzionaria, il cinema, la pittura, i manifesti, gli slogan e le parole d’ordine degli anni ‘60 e ‘70

49 Xu Ben, op. cit.

50 H. Blumer, “Fashion: From Class Differentiation to Collective Selection”, Sociological Quarterly, 10, 1969, p. 275-291.

51 Wang Ning, «Fuzhuang tixian jiti yishi zhuanxing» («Trasformazioni di coscienza sul modo di vestirsi collettivo»), in Nanfang ribao, 20 novembre

52 Vedere ad esempio, Larissa Zakharova S’habiller à la soviétique. La mode et le Dégel en URSS, Paris, CNRS éditions, 2011.

53 Prasenjit Duara, Culture, Power and the State – Rural North China 1900-1942, Standford University Press, Stanford, 1988. Traduzione cinese: Wenhua

Notes

1 «Wuchanjieji Wenhua Dageming langchao xijuan shoudu jiedao “Hongweibing” menglie chongji zichanjieji de fengsu xiguan» («L’ondata della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria si abbatte sulle strade della capitale, le “Guardie rosse” attaccano violentemente le abitudini borghesi», Quotidiano del Popolo, 23 agosto 1966, p. 2.

2 Xu Ben “Wenge” zhenzhi wenhua zhong de konju yu baoli Il terrore e la violenza nella cultura politica della Rivoluzione culturale, sito Xueshu Zhonghua.

3 Dopo la fine della Rivoluzione culturale, tra il 1979 e il 1980, gli ambienti letterari e artistici della Cina continentale lanciarono un primo attacco contro lo «stile di Hong-Kong e Taiwan». In seguito, in occasione della critica di un film sulle prostitute giapponesi, Sandakan No 8, il comitato del Partito della municipalità di Pechino lanciò un movimento di «piccola pulizia». Alcuni guardiani erano stati piazzati accanto alle porte dell’università Qinghua per ispezionare i capelli e la larghezza dei pantaloni di studenti e insegnanti. I capelli lunghi, che iniziavano ad andare di moda, gli occhiali da sole stile aviatore e i pantaloni a zampa d’elefante erano vietati. A metà degli anni ‘80 in Cina ebbero luogo dei movimenti di «Pulizia dell’inquinamento spirituale» e «Anti-liberalismo», accompagnati da diverse ondate di limitazione della libertà di parola. Oltre alle «pulizie» del settore culturale, alcuni moralisti benpensanti hanno iniziato a criticare l’«inquinamento spirituale» nel settore economico.

4 Hu Deping, Yaobang tongzhi ruhe kan xiaofei – jue bu neng «hao mei er wu Xishi» (Punto di vista del compagno Yaobang sui consumi – non si può «amare la bellezza e odiare Xishi»), sito informativo su Hu Yaobang.

5 Turner, “The Social Skin”, in C. B. Burroughs & J. Ehrenreich (dir.), Reading the Social Body, Iowa City, University Iowa Press, 1993, p. 15-39.

6 Xiao Fengxia, «Zhongguo jiyuan: beifu lishi nang kuaisu qianxing – ping youguan Zhongguo dangdai shehui shenghuo de san bu zhuzuo» («Inizio di un’era cinese: avanzare rapidamente sopportando l’onere della storia – critica di tre opere sulla vita nella società cinese contemporanea», in Shehuixue yanjiu, no 5, 2006.

7 A causa dei limiti imposti da numerosi fattori quali la capacità produttiva e il livello tecnico del paese, poche persone si potevano permettere di scattare regolarmente delle foto; inoltre, a causa dei ripetuti sconvolgimenti della vita politica, ma anche del clima umido e piovoso del Sud della Cina, si sono conservate poche fotografie integre e nitide. Per questi motivi, il reperimento di fotografie utili alla nostra ricerca è stato difficile.

8 Norman K. Denzin, “The Comparative Life History”, in Norman Denzin (réd.), The Research Act, McGrawHill, New-York, 1978, p. 214-255.

9 Nicolas Herpin e Liliane Kasparian, Les dépenses d’habillement en 1983-84, Premiers résultats, Collections de l’INSEE, no 48, 1985, p. 6-22.

10 Jin Dalu, «Chong “wu” de shenmei jiqi tuibian» («L’estetica della venerazione del “guerriero” e le sue mutazioni», Shehui guancha, no 5, 2006.

11 Secondo un proverbio cantonese, «culotte testa di bufalo, dominio del mondo» significa che si è pronti ad accettare una vita estremamente dura per lanciarsi in una grande impresa. Un’espressione popolare dice anche: «Non temo che i miei figli e nipoti portino dei pantaloni a testa di bufalo, ma piuttosto che i miei discendenti si ritrovino con delle scarpe a coda di rondine», poiché chi portava le scarpe «coda di rondine» (scarpe con punzonatura a coda di rondine) era considerato un tipo degenerato e poco raccomandabile, simbolizzando così la decadenza della famiglia.

12 Il testo originale di Lu Xun è il seguente: «Gli spettatori trattenevano il fiato, un uomo spuntò sulla scena vestito soltanto con una culotte “testa di bufalo” e con alcuni tratti del viso truccati; era l’“impiccato”». La «culotte testa di vitello» (dubikun) fa allusione alla biografia di Sima Xiangru, nelle Memorie storiche (Shiji) di Sima Qian. Secondo il commento di Song Feisi (dinastie del Sud), citando Wu Weizho, (periodo dei Tre Regni), «Tagliato in tre metri di tessuto, la sua forma è simile a una testa di vitello». Nel testo in questione, questa culotte designa una specie di short chiamato «pantalone testa di bufalo» nella regione di Shaoxing.

13 Il testo originale di Lu Xun è il seguente: «Gli spettatori trattenevano il fiato, un uomo spuntò sulla scena vestito soltanto con una culotte “testa di bufalo” e con alcuni tratti del viso truccati; era l’“impiccato”». La «culotte testa di vitello» (dubikun) fa allusione alla biografia di Sima Xiangru, nelle Memorie storiche (Shiji) di Sima Qian. Secondo il commento di Song Feisi (dinastie del Sud), citando Wu Weizho, (periodo dei Tre Regni), «Tagliato in tre metri di tessuto, la sua forma è simile a una testa di vitello». Nel testo in questione, questa culotte designa una specie di short chiamato «pantalone testa di bufalo» nella regione di Shaoxing.

14 Intervista di F. registrata il 13 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

15 Idem.

16 Intervista di H. registrata il 2 novembre 2006 a Guangzhou dall’autore.

17 Vedere Malcom Waters, Modern Sociological Theory, Londres, Sage Publications, 1994, p. 145 della traduzione cinese (Xiandai shehui lilun, tradotto da Yang Shanhua et al., Huaxia chubanshe, Beijing, 2000).

18 Il nome cantonese di questi pantaloni aderenti è quello di una specialità di salsiccia locale, e l’unità di misura della larghezza dei pantaloni era una bottiglia di alcol di riso di Jiujiang: le «masse rivoluzionarie» davano prova di creatività stabilendo una relazione diretta tra le regole della Rivoluzione e la loro vita quotidiana.

19 Intervista di B. registrata il 7 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

20 Intervista di M. registrata il 21 aprile 2006 a Guangzhou dall’autore.

21 Intervista di Z. registrata il 10 aprile 2006 a Guangzhou dall’autore.

22 Zhu Cenlou, «Cong shehui, geren yu wenhua de guanxi lun Zhongguoren xingge de chigan quxiang» («Orientamenti del sentimento di vergogna nel temperamento dei cinesi a partire dalla società, dagli individui e dalla cultura», in Li Yiyuan, Yang Guoshu, Zhongguoren de xingge (Il temperamento dei cinesi), Jiangsu Jiaoyu Chubanshe, Nanjing, 2006, p. 80.

23 Intervista di D. registrata il 6 settembre 2006 a Guangzhou dall’autore.

24 Intervista di C. registrata il 19 agosto 2005 a Guangzhou dall’autore.

25 Idem.

26 Intervista di D. registrata il 3 ottobre 2006 a Guangzhou dall’autore.

27 Intervista di F. registrata il 13 agosto 2006 a Guangzhou dall’autore.

28 Feng Jicai, Yi bai ge ren de shi nian (tradotto e pubblicato in inglese con il titolo Ten Years of Madness), Shidai Wenyi Chubanshe, Changchun, 2003, p. 178.

29 Idem.

30 Idem.

31 Guangzhou Fuzhuang Jishu Xuexizu (Gruppo di studio tecnico sull’abbigliamento di Guangzhou), «Shenmeyang de yifu suan shi qizhuangyifu» («Che genere di vestiti si devono considerare come “tenute stravaganti”?»), Yangsheng Wanbao, 10 giugno 1964, p. 2.

32 Rao Zhanxiong, et al. (réd.), Guangzhou shi DashijiZhonghua Renmin Gongheguo shiqi 1966 nian (Gazzetta di Guangzhou, cronaca degli eventi importanti, periodo della Repubblica Popolare cinese, 1966), sito Guanzhoushi Difangzhi.

33 Gu Zhihui, «Jianjue jujue zaizhi qizhuangyifu ‒ Gaomei Fuzhuang dian zhigong yongyu baohu shehui hao fengqi» («Rifiutiamo fermamente di confezionare delle tenute stravaganti ‒ Gli impiegati del negozio di abbigliamento Gaomei hanno il coraggio di proteggere i buoni costumi della società»), Jiefang ribao, 7 giugno 1964, p. 2.

34 «Shanghai guangda renmin jiji canjia dizhi qizhuangyifu de taolun fayang wuchanjieji youliang chuantong fandui zichanjieji sixiang zuofeng» («La numerosa popolazione di Shanghai partecipa alla discussione sulla resistenza alle tenute stravaganti e diffonde l’eccellente tradizione proletaria di lotta contro lo stile di pensiero borghese»), in Renmin ribao, 14 novembre 1964, p. 2.

35 Durante alcune discussioni, dei giovani marginali sull’orlo della decadenza e che avevano per qualche tempo desiderato le «tenute stravaganti» descrivevano a partire dalla loro esperienza personale il pericolo che la ricerca di questo tipo di abbigliamento aveva rappresentato per loro, in quanto compromessi dal modo di vivere capitalista. Dopo che tali dibattiti proseguirono per qualche tempo, indossare le «tenute stravaganti» non aveva più lo stesso fascino per la popolazione di Shanghai. Quanto alla cliente all’origine della querelle con il personale del negozio di Gaomei, essa riconobbe dignitosamente di aver avuto torto durante un dibattito e si recò di sua propria iniziativa alla redazione del Jiefang ribao per dichiarare che ormai, grazie all’aiuto dei compagni della sua organizzazione e del suo entourage, stava facendo rapidi progressi.

36 Intervista di C. registrata il 27 ottobre 2006 a Guangzhou dall’autore.

37 «Wuchanjieji Wenhua Dageming langchao xijuan shoudu jiedao “Hongweibing” menglie chongji zichanjieji de fengsu xiguan» («L’ondata della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria si abbatte sulle strade della capitale, le “Guardie rosse” attaccano violentemente le abitudini borghesi», Quotidiano del Popolo, 23 agosto 1966, p. 2.

38 Idem.

39 Lin Yifu, et al., Zhongguo de qiji (Il miracolo cinese), (versione ampliata), Shanghai Sanlian Shudian, Shanghai Renmin Chubanshe, 2004, p. 28-38.

40 Wang Ning, Cong kuxingzhe shehui dao xiaofeizhe shehui: Zhongguo chengshi xiaofei zhidu, laodong jili yu zhuti jiegou zhuanxing (Dalla società ascetica alla società dei consumi: sistema consumistico delle città cinesi, struttura del soggetto**, Shehui Kexue Wenxian Chubanshe, Beijing, 2009, p. 44-106.

incitamento al lavoro e trasformazione della

41 Xu Ben, «“Xuyao” zai Zhongguo de zhengzhi zhuanxing he lilun kunjing» («I “bisogni” nei cambiamenti della politica cinese e la difficoltà della loro posizione teorica»), in Huacheng, no 4, 2006

42 Mai Shaoping (réd.), Guangzhou shizhi – riyong gongyepin shangyezhi (Gazzetta di Guangzhou, cronaca commerciale dei beni di consumo quotidiano), sito Guangzhou shi Difangzhi.

43 Idem.

44 Xu Ben “Wenge” zhenzhi wenhua zhong de konju yu baoli Il terrore e la violenza nella cultura politica della Rivoluzione culturale, sito Xueshu Zhonghua.

45 Idem.

46 Idem.

47 Idem.

48 La letteratura, la poesia, l’opera rivoluzionaria, il cinema, la pittura, i manifesti, gli slogan e le parole d’ordine degli anni ‘60 e ‘70 riguardavano gli eroi e gli eventi rappresentativi pubblicizzati all’epoca, e mai l’individuo, i rapporti tra i sessi o i sentimenti personali.

49 Xu Ben, op. cit.

50 H. Blumer, “Fashion: From Class Differentiation to Collective Selection”, Sociological Quarterly, 10, 1969, p. 275-291.

51 Wang Ning, «Fuzhuang tixian jiti yishi zhuanxing» («Trasformazioni di coscienza sul modo di vestirsi collettivo»), in Nanfang ribao, 20 novembre 2003.

52 Vedere ad esempio, Larissa Zakharova S’habiller à la soviétique. La mode et le Dégel en URSS, Paris, CNRS éditions, 2011.

53 Prasenjit Duara, Culture, Power and the State – Rural North China 1900-1942, Standford University Press, Stanford, 1988. Traduzione cinese: Wenhua, quanli yu guojia: 1900-1942 nian de Huabei nongcun, tradotto da Wang Fuming, Jiangsu Renmin Chubanshe, Nanjing, 2006, p. 1.

Illustrations

s.t.

s.t.

© Bahia Alecki

Fig. 2: Uomo con una «tenuta stravagante», nel 1970

Fig. 2: Uomo con una «tenuta stravagante», nel 1970

Camicia colorata di stile Hong Kong.

Collezione privata.

Brigata rurale, 1968.

Brigata rurale, 1968.

Collezione privata.

Vestito colorato in Dacron e uniforme «Lenine» da donna, nel 1970.

Vestito colorato in Dacron e uniforme «Lenine» da donna, nel 1970.

Collezione privata.

Vestiti Jiangqing, nel 1970

Vestiti Jiangqing, nel 1970

Collezione privata.

Fotografia ricordo di tre collaboratori (L.  sinistra) nel 1969 a Parigi.

Fotografia ricordo di tre collaboratori (L.  sinistra) nel 1969 a Parigi.

Collezione privata.

Uomo in abiti da lavoro, in una riunione pubblica, 1967.

Uomo in abiti da lavoro, in una riunione pubblica, 1967.

Collezione privata.

References

Electronic reference

Sun Peidong, « Abolire la moda », Modes pratiques [Online],  | 2020, Online since 14 February 2025, connection on 21 April 2025. URL : https://devisu.inha.fr/modespratiques/991

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Sun Peidong

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Monica Messina

Giulia Bonali

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