Standing Rock Store
© Léa Hybre
C’è probabilmente sempre stata della moda presso gli Indiani d’America, almeno se per questo intendiamo una variazione stilistica del vestito nel tempo e nello spazio. La ricerca antropologica fin dai primi del XX secolo ha sottolineato la circolazione dei tagli e dei motivi ornamentali tra gruppi tribali, per esempio nelle Grandi Pianure americane, che ha permesso di distinguere – a grandi linee – dei periodi in un passato che era lungi dall’essere immobile. Sia prima sia dopo il «contatto» con gli Europei, motivi e tecniche si sono trasmessi tra gruppi, non senza tenere conto, nel ciò fare, dei diritti di proprietà personali1.
Fin dai primi decenni che hanno seguito il «contatto», «Bianchi» e «Indiani» hanno prestato un’attenzione molto particolare ai loro vestiti e alle loro parure rispettivi. Gli scambi commerciali e i matrimoni hanno dato adito alla comparsa di costumi compositi, dove si sono formati dei gusti indigeni per le importazioni europee, che sono risultati in una serie di tessuti, tagli e assortimenti che rispondevano a dei criteri particolari. Fin dal XVIII secolo, questi gusti già affermati hanno permesso di costituire un vero e proprio mercato indiano in alcune industrie come quella delle coperte, fino alla metà del XX secolo2.
Che la si definisca semplicemente come una variante stilistica nel tempo, o più precisamente come una specificità europea, che associa in un periodico rinnovo consumatori, commercianti, pubblicitari e industriali, la moda non ha dunque aspettato il XX secolo per penetrare nella vita delle famiglie e dei gruppi indiani. Se l’epoca contemporanea merita che ci si soffermi particolarmente, è perché ci consente di vedere in quali condizioni dei popoli sottomessi e relegati in delle riserve hanno potuto continuare ad appropriarsi la moda euro americana, nonostante l’isolamento geografico (relativo), la povertà (frequente), e il paternalismo (onnipresente) dello Stato federale americano, e delle Chiese cristiane, che si estendeva volentieri all’abbigliamento. Non si tratta qui di descrivere in modo astratto un costume o una moda indiana «da riserva», e questo innanzitutto perché non tutti i gruppi indiani, anche quando sono sottoposti a delle condizioni di vita simili, hanno lo stesso punto di partenza.
Un’indagine a livello di una riserva, quella del territorio sioux di Standing Rock, situato a cavallo tra gli Stati del Dakota del Nord e del Dakota del Sud, permette di cogliere la creazione di tradizioni locali dell’abbigliamento ancorate in delle culture specifiche, e di mettere in luce in che modo, nella vita quotidiana degli individui, vengono negoziate le pressioni esercitate dagli euro-americani sul costume degli Indiani. Abito rurale, da povero, alla moda, o ispirato al passato: il vestito indiano nelle riserve risponde a tutti questi aspetti contemporaneamente. Ma, avendo rinunciato all’idea che dovrebbero esserci uno stile o una moda specifica facile da definire in modo definitivo, vorremmo osservare nelle riserve, come si sia sviluppato un codice dell’abbigliamento particolare, nato dalla colonizzazione. Poiché in generale non è il vestito in quanto tale ad essere indiano, e neanche le sue componenti, bensì le sue pratiche, il modo in cui interagisce nelle relazioni sociali e con la vita dei singoli, in seno a delle società molto specifiche, quelle delle riserve.
“Census taking at Standing Rock Agency’’, David F. Barry, anni 1880.
Denver Public Library.
“Census taking at Standing Rock Agency”, (dettagli), David F. Barry, anni 1880.
Denver Public Library.
Ritratti di Indiani d’America, W.H. Jackson, c. 1878.
Fotografie di Indiani selezionate dalla collezione in possesso della U.S. Geological Survey of the Territories, c. 1876, Yale Collection of Western Americans, Beinecke Rare Book and Manuscripts.
UN AGENTE DI «CIVILIZZAZIONE»
Dalla massa ordinata che viene a farsi recensire, alla sede dell’agenzia dell’Ufficio per gli Affari Indiani, emergono di primo acchito soltanto dei cappelli. In quest’anno del decennio 1880, la riserva di Standing Rock raggruppa più di 3000 Lakotas e Dakotas, dei Sioux pacificati di recente. Il fotografo D. F. Barry, venuto dalla città di Bismarck, situata a 100 km al nord, nel territorio del Dakota, realizza un ritratto di gruppo solenne. Al centro della fotografia, il tavolo dove è seduto l’incaricato del censimento, l’agente del B.I.A., in giacca e bombetta. Dietro di lui, sua moglie che è anche la sua interprete, con lo stesso cappello. A un estremo del tavolo uno dei capi Lakotas della riserva, John Grass, dai tratti poco visibili sotto il suo cappello di paglia. In piedi, appoggiato ad un secondo tavolo, un altro capo, Gall. Dietro ai due leader ci sono le loro mogli.
L’abito da cittadino
Il censimento è l’occasione di affermare un rango e di mettere in scena un ordine. Quest’ultimo è evidentemente legato all’abbigliamento. Al di fuori dei personaggi centrali, sono pochi quelli identificabili, tanto più che i costumi si somigliano. Le donne avvolte nelle loro coperte sono in effetti un po’ in disparte. Ma anche se gli uomini occupano quasi tutto il posto sulla fotografia, appare chiaramente sulla destra di questa un gruppo di donne, vestite con dei grembiuli: sono le impiegate del pensionato di Fort Yates, accanto alle quali si sono sistemati, saggiamente in fila e con una divisa da scolaretti identica per tutti, i loro allievi. Questi bambini e le loro maestre vogliono rappresentare l’avanguardia della civilizzazione. La correttezza della loro tenuta attesta la serietà degli insegnanti del B.I.A.. Essa dimostra tutta l’importanza, per lo stato americano, della conformità di abbigliamento di un popolo che fino a poco tempo prima veniva visto come seminudo, con pitture di guerra in faccia e le piume nei capelli3. Il vestito di tipo europeo è pegno di pace e di assimilazione, le segnala o le anticipa. Pantalone, cappello, panciotto, camicia e giacca formano del resto un insieme che quando è portato dagli indiani viene chiamato «l’abito da cittadino». Come dire una bandiera bianca - il simbolo di un assoggettamento, poiché l’essenziale dei vestiti portati dagli indiani in primo piano sono stati probabilmente dati loro dallo Stato, a titolo delle indennità che percepiscono per avere ceduto per trattato alcune delle loro terre. Sul fondo dell’immagine si vedono i poliziotti indiani che sorvegliano il buon svolgimento delle operazioni. Qua e là, una uniforme da soldato. Mescolati a coloro che sono venuti a farsi recensire, dei bianchi, di ambo i sessi, che abitano il forte o l’agenzia, e si mettono in posa (a volte), nei diversi costumi da impiegato, da pioniere, da funzionario. In questo contesto coloniale, tutti i vestiti visibili sarebbero allora delle uniformi? Il vestito ad ogni modo distingue indiani e non indiani. Anche in abito da cittadino, gli indiani non possono essere presi per dei bianchi. È ugualmente ovvio per i gruppi qui presenti, che vi è un modo «indiano” di vestirsi che distingue i Sioux dai coloni. Anche se lo stile indiano è caratterizzato soprattutto dalla sua diversità. E’ quanto testimonia quasi 50 anni dopo la Sig.ra Aaron Wells, moglie di un agente «sangue misto» del B.I.A.: «gli indiani indossano ogni tipo di vestito, tute da lavoro, camicie (la maggior parte lasciano i lembi della camicia fuori dai pantaloni), scarpe o mocassini, abiti militari, i pantaloni, leggings, chaps di pelle conciata. Alcuni si mettono in testa dei cappelli, altri dei berretti o delle stoffe. Erano tutti vestiti in modo diverso, con una eccezione, poiché tutti avevano delle coperte sulle spalle, ivi compreso gli uomini4». Non è soltanto il fatto che gli indiani si vestono da indiani, secondo una moda a loro propria: essi testimoniano anche di un individualismo che fa sì che ogni costume sia una composizione particolare e idiosincratica.
In effetti, la massa ben raggruppata di questa fotografia dissimula degli individui il cui vestito non è mai identico. La fotografia rivela, alla lente d’ingrandimento, quello che sembrerebbe dipendere da codici d’abbigliamento diversi. Alcuni volti e corpi sono avvolti nelle coperte, alcuni piedi calzano dei mocassini, vediamo dei cappelli con delle piume, colbacchi di pelliccia, e turbanti. Alcuni abiti da cittadino sono più raffinati di altri. La variazione del vestito è a volte associata a degli indizi chiari di indianità. In primo piano, a destra dell’agente, un uomo tiene in mano un calumet, e un bambino ha un mazzo di frecce in pugno. Più lontano, sullo sfondo, un guerriero tiene in mano un’ascia di guerra. Alcuni altri rimangono a distanza.
Dei vestiti portatori di storie
Questa diversità di abbigliamento non è soltanto una questione di umore, di presa di posizione a favore o contro la civilizzazione, o di distinzione sociale. Essa corrisponde a dei modi di produzione e di acquisizione diversi. I vestiti possono certamente essere stati ricevuti dallo Stato, in seguito a un trattato, possono anche essere stati fatti a mano con delle pelli o tessuti comprati dai commercianti indipendenti – ma approvati dal B.I.A. – i cui negozi sono installati a Fort Yates. Quando viene creata la riserva di Standing Rock, tra il 1869 e il 1873, i Lakotas e Dakotas hanno già dietro di sé molti decenni di contatti e scambi con gli euro-americani, nei quali il vestito svolge una parte importante, come bottino di guerra, oggetto di scambio, di dono, di imitazione5. Il vestito è più che un sintomo di acculturazione o di adesione al nuovo regime: è il prodotto di traiettorie individuali diverse, anche se tutte finiscono nella riserva. Ciò che la riserva mette alla prova non è un «vestito indiano» eterno e improvvisamente caduto in disgrazia, ma l’evoluzione del margine di manovra lasciato agli individui per continuare ad utilizzare quello che indossano per definirsi gli uni rispetto agli altri, e rispetto ai bianchi.
Prima di descrivere i limiti che la riserva fa pesare sulle scelte d’abbigliamento, è importante spiegare che cosa intendiamo qui per «individualismo». Molto presto, gli osservatori non indiani hanno osservato l’importanza estrema del vestito e della parure presso i Lakotas, e contemporaneamente il rapporto tra il vestito e la storia personale. La pelle di bisonte che portano in inverno uomini e donne, e che serve da cappotto, è decorata per i primi con motivi e disegni che riflettono le loro imprese di caccia o di guerra. L’abito mette così in scena le prodezze del suo proprietario. Associato ai tatuaggi e ad accessori (piume, collane), al suo cavallo (dipinto) e al suo teepee (anch’esso decorato con motivi di caccia di guerra), è un oggetto estremamente personale e spesso direttamente legato al nome stesso dell’individuo, che a sua volta è commemorazione di un’impresa. Gli elementi di abiti e di parure riflettono anche l’appartenenza a dei gruppi costituiti, delle società di guerrieri o di capi, per esempio, con i loro doveri e privilegi. Di questo legame tra imprese individuali, statuto e abito, il simbolo più forte è il copricapo nel quale ogni piuma rappresenta un «colpo», ovverosia un’impresa riconosciuta, ed è il simbolo più forte e più noto per i non indiani6. Se l’abito maschile e quello femminile sono chiaramente distinti, non è perché il secondo dipenda da un sistema diverso. Anche per le donne, i motivi degli abiti sono ereditati o acquisiti in seguito ad esperienze personali, in particolare di sogni. D’altronde anch’esse possono narrare le imprese dei parenti maschi7. Il carattere centrale del vestito nella definizione sociale degli individui appare chiaramente nel suo utilizzo in situazione pericolosa. Un guerriero può partire in battaglia rivestendo i suoi più begli abiti per provocare il nemico o morire con i simboli della sua dignità8. Il corpo di un capo verrà ugualmente rivestito, alla sua morte, con i suoi abiti più belli9.
Il vestito Lakota è quindi il prodotto e il vettore di una competizione per gli onori, e della necessità di «farsi un nome», per sé e per la propria famiglia. Esso è anche profondamente biografico, in quanto è associato a episodi di vita che esso commemora o ricorda, tanto a colui che lo indossa quanto a coloro che lo vedono, il che ne fa un supporto di narrazioni o di canti, che ne spiegano l’origine e il significato. Prodotto nel quadro familiare e decorato dagli stessi proprietari, non potrebbe davvero essere più personale di così. Tuttavia, poiché si iscrive in una cultura delle Pianure incentrata sulla guerra e la caccia a cavallo, i cui rappresentanti si oppongono vigorosamente agli euro-americani venuti dall’Est, diventa anche un simbolo generico di indianità per questi ultimi, durante i primi decenni del XX secolo. Si sviluppa una critica americana del «dandismo» sioux, che va dall’ironia appena percettibile fino ad una satira della vanità dei selvaggi. Per esempio c’è molta ironia tra i soldati, che deridono le civetterie da «femminucce» dei guerrieri Sioux10.
All’alba del confinamento in riserva, negli anni 1860, il modo di produzione di questo costume e già misto. L’essenziale è ancora fabbricato nel quadro famigliare, essenzialmente a partire da materiali animali, ma cappotti, camicie, cappelli e soprattutto coperte, fabbricati nelle officine d’Europa dell’ovest e degli Stati Uniti, hanno incominciato a fare la loro apparizione nel costume Lakota dalla fine del XVIII secolo. Come è stato d’altronde il caso più ad est in America due secoli prima, l’introduzione dei nuovi vestiti è seguita solo parzialmente da quella di nuove norme di abbigliamento. Essa non presuppone neanche la frequentazione di Bianchi, poiché le merci transitano tramite intermediari indiani. Inoltre, anche se di cotone, gli abiti continuano a rispettare il modello dei vestiti di pelle11. Quanto agli articoli di prestigio offerti in regalo dai bianchi, essi sono oggetto di utilizzo essenzialmente cerimoniale.
“Graduating Class”, Carlisle Indian School, 1912.
Apparsa su The Red Man, vol. 4, n° 9, maggio 1912.
Prima/dopo
Sono i capi che, per primi, sono oggetto di tentativi americani di cambiare il loro costume. Dapprima viene semplicemente aggiunto al costume un nuovo capo d’abbigliamento (cappello, camicia, giacca, ecc.), dato o scambiato, per un uso non sempre duraturo. I capi indiani in visita a Washington per negoziare trattati e accordi ripartono carichi di regali, tra i quali dei completi, spesso militari e sempre all’ultima moda. Durante questi stessi soggiorni, si lasciano ritrarre in fotografia, da soli o in gruppo, con i loro nuovi vestiti. La pratica associa la fotografia e il riconoscimento dallo stato del loro statuto di capo, cosa di cui testimonia il vestito. Il viaggio a Washington contribuisce anche a incorporare lo sguardo disapprovatore o persino umiliante che i bianchi posano sul vestito indiano, in particolare la vergogna di portarlo davanti ai non indiani12. Anche se è spesso abbandonato dopo il ritorno al paese, Il vestito bianco si carica così di un significato politico e di una carica emotiva forti.
Quando i popoli Lakotas sono costretti a recarsi nelle riserve durante le molteplici campagne militari, tra il 1868 e il 1882, il vestito è chiaramente identificato come uno dei termini dei rapporti sociali, e non più soltanto diplomatici o guerrieri, che saranno allacciati tra indiani e non indiani, ma anche tra gli indiani stessi. Gli individui nati da coppie «miste» (indiano - bianco), chiamati «sangue misto», vedono la loro identità personale e collettiva legata al loro utilizzo del vestito bianco. Più in generale, nelle ulteriori reminiscenze dei Lakotas «sangue misto» o «purosangue», l’insediamento nella riserva è strettamente associato al fatto di «diventare bianco», che a sua volta passa tramite dei gesti simbolici tra i quali il fatto di esibire un vestito bianco, o di tagliarsi i capelli13. È in parte una risoluzione personale, e in parte una risposta alle domande insistenti degli Americani, che considerano la riserva uno spazio di transizione verso la civilizzazione. Anche se la data varia in funzione degli individui, esiste un prima e un dopo negli itinerari individuali e collettivi, delimitati dalla adozione, anche se parziale, del costume euro-americano. Per le donne, sembra che la transizione si sia fatta più in modo più insensibile, poiché esse si erano già appropriate il tessuto e poiché i vestiti rispettavano i canoni indiani. Per gli uomini, invece, troviamo delle interpretazioni di questo avvenimento come una forma di morte simbolica, o quanto meno una degradazione o una emasculazione, ad ogni modo come una rinuncia ad una vita libera. Il vestito da cittadino in realtà è soltanto la forma più prestigiosa di un cambiamento nell’abbigliamento legato all’adozione di ciò che per gli uomini Lakotas è spesso considerato un modo di vita femminile: l’agricoltura. Il costume degli indiani obbligati a installarsi nella riserva incorpora rapidamente dei vestiti da lavoro agricolo, come la tuta. Diventa così il supporto e il mezzo di una forma di ingegneria sociale pilotata dallo Stato americano e sostenuta dalle Chiese cristiane, che promuovono il lavoro come strumento di redenzione e di incorporazione alla maggioranza bianca della popolazione americana. La fotografia di indiani in abiti da cittadino diventa allora cosa comune. La sua interpretazione, quanto ad essa, funziona secondo lo schema «prima/dopo», o poiché essa sottintende la trasformazione: si mostra un indiano con un costume «bianco», questo significa che ha abbandonato il suo modo di vita «selvaggio» e con esso il suo vestito tradizionale; o allora perché la mette in scena: nei pensionati aperti ai giovani indiani i primi arrivati vengono dapprima fotografati «da selvaggi», poi fotografati con le uniformi da studenti.
Sulle terre indiane, sono dapprima i missionari che intraprendono di insegnare ai Lakotas le norme d’abbigliamento legate a questi nuovi costumi. L’identità dei religiosi è essa stessa intimamente legata all’abito che permette agli indiani di identificarli, e in particolare di distinguere le «tonache nere» cattoliche dalle «tonache bianche» episcopali. I missionari d’altronde capiscono perfettamente il ruolo di una vera e propria «conversione d’abbigliamento» nel loro concetto di evangelizzazione. A questo nelle terre indiane si aggiungono nuovi elementi: per i loro protetti nelle riserve, private di risorse, e che si rivolgono ad essi come a delle figure paterne dispensatrici, i missionari spesso sono anche fonte di cibo e di vestiti, come lo Stato. Scambiano questi ultimi contro l’osservanza del servizio religioso o il rispetto di norme sociali cristiani, come quelle che riguardano il matrimonio14. La rinuncia ai simboli della mascolinità Lakotas è prima di tutto incoraggiata come una rinuncia a un modo di vita pagano, ma i missionari mettono l’abito anche al servizio di una riforma più interna. Nella continuità di una educazione middle class, fanno della cura dell’abito un riflesso del valore morale degli individui. Pulizia e un abito ben stirato diventano così dei criteri per la frequentazione delle loro scuole, ma anche della Chiesa. In questi due ambiti, l’abito è oggetto di un insegnamento e di un’incorporazione che uniscono strettamente etica del lavoro e rituali cristiani. Fin dagli anni 1880, alcune associazioni cristiane, che separano uomini e donne, servono ugualmente a promuovere un nuovo tipo di distinzione dei generi tramite il vestito. Lo scialle e il foulard, già presenti presso le donne Lakotas, diventano così un simbolo della rispettabilità cristiana. Per esse, le associazioni promosse dalle Chiese sono anche dei luoghi in cui si pratica il cucito, e i vestiti così prodotti sono oggetto di un rapporto con le autorità religiose, o di concorso nelle fiere agricole. La chiesa è anche il luogo di promozione del vestito «della domenica»15. Contare il numero di indiani vestiti come i Bianchi e valutare la loro produzione di vestiti dalla foggia americana rappresenta un mezzo elementare di valutare l’efficacia del lavoro «civilizzatore», e non soltanto per le chiese16.
Infatti anche per il B.I.A., mostrare degli indiani in abiti da cittadino è un potente mezzo per ribattere alle critiche che denunciano il costo della sua azione e la sua inefficacia, prendendone come prova i corpi ancora «seminudi» degli indiani da essa protetti17. Tra il 1868 e la fine del XIX secolo lo Stato sostituisce a poco a poco i gruppi religiosi in quanto istigatori principali di una politica di civilizzazione degli indiani nelle riserve Lakotas. Esso dispone per questo del bastone della forza armata, e della carota, rappresentata dalla distribuzione dei beni. Senza sostituirsi completamente alla carità delle Chiese, l’agente del B.I.A. assume un ruolo di dispensatore simile a quello di un missionario, ma sostenuto da un budget ben più cospicuo. Il censimento al quale si prestano gli individui riuniti nella fotografia di D. F. Barry permette d’altronde di valutare i bisogni della riserva, e viene accompagnato sicuramente da una distribuzione di razioni alimentari, nonché di vestiti e di pezze di tessuto. La conversione dell’abbigliamento è quindi capita dagli indiani come l’elemento di una transazione che li Lega allo Stato e che obbliga lo Stato nei loro confronti. Per i Lakotas, è l’articolo 8 firmato a Fort Laramy nel 1868 che stipula il diritto, «per ogni maschio di più di 14 anni, ad un completo di lana, buona e robusta, che comprenda un cappotto, un pantalone, una camicia di flanella e un paio di calze fatte a mano. Per le donne di più di 12 anni, una camicia di flanella o il materiale per realizzarla, un paio di calze lunghe di lana, 12 yards di calicot, e 12 altre di cotone domestico (cotton domestics). Per i ragazzi e le ragazze di età inferiore, la quantità di flanella di cotone necessaria alla confezione di questo tipo di completo, e di un paio di calze lunghe.»18 Come nel caso dei missionari, questo diritto a un’attenzione per l’abbigliamento è in un primo tempo interpretato come un legame a dei padri simbolici: agente della riserva, presidente degli Stati Uniti, tenuti a nutrire e vestire i loro figli indiani. Ma questo legame è rapidamente oggetto di forti restrizioni, col pretesto di sviluppare l’indipendenza economica e l’imprenditorialità dei Lakotas.
NUOVE ESPRESSIONI DELL’NDIVIDUALITÀ
I momenti delle grandi riunioni sono delle occasioni per mettere in scena questi cambiamenti. Ma è nelle scuole del B.I.A. che si insegna l’uso ortodosso degli abiti e dei tessuti «bianchi» e la morale ad essi collegata. L’insegnamento del cucito, in particolare, è concepito come il mezzo di insegnare l’economia e la creazione di un capitale. Esso è legato ad una «economia domestica» che pretende di formare le giovani donne ad un uso razionale delle risorse domestiche, e che presuppone l’utilizzo dell’inglese, della scrittura, del calcolo e del libro nella preparazione dei cartamodelli, e dei conti.
Questo insegnamento è ritenuto capace d’inculcare un nuovo individualismo, basato sulle prestazioni del lavoro, e sull’idea di un’autonomia nei confronti delle larghezze dello Stato. Si incoraggiano ugualmente nuovi atteggiamenti rispetto al corpo, valorizzato dalla pulizia e del portamento eretto19. Vengono istituiti dei contro modelli: coperta drappeggiata, fasciatura stretta dei bebè, vestito sporco, stropicciato, strappato, o troppo grande, perché distribuito dallo Stato o dalle Chiese20. Il raffinamento del gusto è concepito come un processo di miglioramento di sé, ma strettamente limitato: il modo di vita nel quale il vestito deve inserirsi è rurale, l’orizzonte è la «natura selvaggia» (wilderness) delle Grandi Pianure. La modernità dell’abbigliamento, in altre parole il senso della moda, è dunque paradossalmente tenuta a distanza. I funzionari e insegnanti del B.I.A. sono essi stessi sottoposti a delle norme di rappresentazione che rendono imperativa una sobrietà dell’abbigliamento per tutti, e per le donne in particolare. Lo stereotipo del selvaggio «all’ultima moda», nato dalle visite a Washington, continua a pesare, così come la critica della vanità nell’abbigliamento degli indiani, e la promozione dell’autarchia, accompagnata da un rifiuto delle transazioni finanziarie con i commercianti «bianchi». Come in altri contesti coloniali, gli indiani troppo assimilati possono ugualmente sembrare minacciosi- soprattutto i «sangue misto»21. Nonostante le critiche di coloro che sottolineano il comfort di alcuni articoli d’abbigliamento indiani, come i mocassini22, l’insistenza sull’ adozione del costume completo non sarà mai veramente abbandonata nelle scuole dello Stato. L’uomo indiano «ritornato alla coperta», dopo essere passato dalla scuola, resta fino agli anni 1920 il simbolo del fallimento della assimilazione.
Delle piume su un cappello: bricolage indiani
Dobbiamo per questo concludere che ogni adozione del vestito bianco sia il prodotto di una costrizione, oppure che i significati ad esso attribuiti dai funzionari e missionari siano universalmente adottati da coloro che ne sono oggetto? Le testimonianze che insistono sulla diversità degli stili suggeriscono che nonostante la costrizione, o addirittura attraverso di essa, il vestito continui a riflettere delle scelte individuali che non sono soltanto negative. Così come alcuni fanno la scelta cosciente di «diventare bianco», allo stesso modo il vestito che essi adottano indica una concezione particolare di ciò che significa «essere bianco». Le piume sui cappelli non sono necessariamente dei simboli di resistenza, sono i segni che numerosi individui inventano un modo di essere indiano e bianco al tempo stesso, che il vestito in altre parole permette a certe condizioni di conciliare l’inconciliabile. Questo vale anche per coloro la cui occupazione professionale implica di portare un’uniforme e che potrebbero sembrare essere coloro che meno possono esprimere una differenza attraverso il loro abito. Da un lato, gli indiani che diventano poliziotti, soldati, o membri di uno dei numerosi cleri cristiani presenti nella riserva, non si vedono imporre il loro abito: essi scelgono di portarlo e di sfidare, facendo questo, l’eventuale ostilità dei loro genitori e vicini23. Scelta della professione e scelta di un vestito sono strettamente collegati. D’altro canto, la distinzione permessa dal vestito religioso o dall’uniforme militare va al di là del valore di affermazione di un impegno al fianco dei «Bianchi». Essa permette di ricreare degli statuti in parte conformati da valori indiani. Il cambiamento di abbigliamento può così permettere delle continuità sorprendenti.
Nel caso dei Lakotas, il vestito clericale, sebbene straniero, è per esempio molto rapidamente investito di un valore che deve molto a schemi di interpretazione autoctoni. Colui che lo porta non è rispettabile soltanto perché si appoggia sul potere dei Bianchi. Egli è anche impregnato di una sacralità indiana. Certo, non tutti la rispettano. Nel 1889- 1890 a Standing Rock come d’altronde nelle Pianure, la rivolta della Danza degli Spiriti, partita dall’Utah, si manifesta con l’adozione di «camicie degli spiriti» e il rifiuto dell’abito bianco24, anche se il materiale scelto per il nuovo rito, cioè il cotone, a sua volta proviene dai non Indiani. La repressione che segue, nel 1890, non porta soltanto alla morte di Sitting Bull e al massacro di Wounded Knee. Essa rafforza anche il controllo che pesa sulle danze, occasione principale di sfoggiare dei vestiti indiani diventati oramai tradizionali, ovverosia simbolo della vita di prima delle riserve. Al tempo stesso, i negoziati con lo stato americano che precedono questo episodio di conflitto indicano delle appropriazioni- assimilazioni indiane di rappresentazioni bianche del vestito. Nel 1888, un capo yanktonai può così designare i negoziatori bianchi come «rivestiti della potenza dall’alto», l’espressione è particolarmente ricca poiché essa applica una citazione dei Vangeli (Luca 24:49) a dei rappresentanti dello Stato, e fa riferimento anche ad una concezione Lakota che associa potere, sacralità e vestito25. L’adozione di un vestito «bianco», per quanto possa essere pensata come una forma di conversione, non riesce a cancellare tutti i significati anteriormente associati al vestito. L’uniforme da poliziotto può così, in alcuni casi, essere interpretata come un segno di distinzione paragonabile a quelle alle quali avevano diritto i membri delle società di guerrieri che strutturavano la sociabilità degli uomini Lakotas, prima che fossero relegati nelle riserve.
Il Big Store
La possibilità di scegliere un vestito e dunque di costruire delle norme d’abbigliamento si accelera ai primi del XX secolo. Solidamente installata, all’epoca, nel sistema scolastico, la norma che associa vestito bianco, rispettabilità middle class e sobrietà rurale perde tuttavia assai rapidamente il suo valore nelle riserve. Da un lato, la possibilità di controllare i vestiti dei Lakotas si appoggia più sulla loro povertà che non sull’efficacia pedagogica del B.I.A.. D’altro lato, questo controllo è seriamente limitato dalla esistenza di modelli alternativi e da un’offerta d’acquisto sulla quale il servizio federale non sempre ha potere. È vero che la maggior parte degli acquisti fatti dagli indiani devono essere approvati dall’agente del B.I.A., ma questo non basta. I pensionati situati fuori dalle riserve e vicino alle metropoli dell’Est servono da incubatrice per l’importazione delle mode d’abbigliamento urbane. A Standing Rock, a partire dagli anni 1910, la presenza di coloni e di commercianti trasforma la società della riserva, e procura ai suoi abitanti dei nuovi modelli e contro modelli, e delle nuove fonti di rifornimento che permettono ad alcuni individui di accedere ad un consumo più complesso.
Pubblicità per “The Big Store” (Fort Yates).
Apparsa su Sioux County Pioneer, 28 maggio 1915, pag. 1
Questo cambiamento demografico rafforza la divisione geografica tra Indiani che vivono vicino ai coloni bianchi e Indiani più isolati. Ma per tutti gli Indiani capaci di trasformare le loro risorse fondiarie o il loro lavoro in denaro, Fort Yates, collegato alla città di media grandezza di Bismarck con un servizio regolare di diligenza e con il treno, diventa il luogo di rifornimento in beni provenienti da San Paul-Minneapolis o Chicago. Un negozio in particolare, The Big Store, concentra tessuti, confezione, calzature e scialli. Lungi dall’essere destinato esclusivamente ai bianchi, propone il suo lusso a tutti. Approvato dal B.I.A., costituisce un luogo di acquisti regolari per tutti gli indiani che si recano in città «per affari», ovverosia per ricevere dall’ Ufficio il denaro che è loro dovuto, e di procedere ai loro acquisti. Nel 1910 una frequentatrice del luogo riferisce con fierezza l’offerta d’abbigliamento nella città, le sue: «sete delicate, calzature di eccellente qualità, e buoni vestiti», e ha cura di segnalare che è sul cappotto di una donna indiana che essa ha dapprima individuato la piega laterale caratteristica della moda di quell’anno, anche se, a differenza delle «bianche», le «indiane» non portano il cappello e sono tutte coperte da uno scialle26. Questo testo non è innocente: invita i bianchi dell’Est a riconoscere il carattere eminentemente civile di una regione che essi associano ancora- a torto secondo l’autrice- alla barbarie, per eventualmente emigrarvi. Nonostante l’isolamento e l’impressione «di essere su un’isola», la moda è presente, e segnala la continuità con il mondo urbano: questo vuol dire che la Frontiera non esiste più. L’autrice, figlia di un mercante locale, anche se di parte, è ben informata. Gli esempi di indiani al corrente della moda hanno lasciato delle tracce.
“The Big Store”, Frank B. Fiske, anni 1900.
Historical Society of North Dakota, 1952-0428.
Con piume e fiori
Josephine Gates Kelly offre un buon esempio della maniera in cui il vestito può riflettere la padronanza dei codici d’abbigliamento che sfoggiano all’epoca alcuni indiani di Standing Rock. Nata nel 1888, nipotina di un capo installato nel nord della riserva la cui figlia ha sposato un «sangue misto», essa frequenta durante 7 anni un pensionato dell’Est. Al suo ritorno lavora nell’amministrazione di una delle contee create sul territorio della riserva, diviene impiegata di un altro sangue misto, suo cognato, il cui negozio è situato in un’altra città a maggioranza bianca della riserva, McIntosh, e qui si sposa con un irlandese27. Questa traiettoria di «sangue misto» in grado di utilizzare l’istruzione e le relazioni famigliari per approfittare, come i suoi genitori prima di lei, dei rari posti di lavoro non amministrativi della riserva, viene tradotta in immagini.
“Josephine Gates Kelly”, Frank .B. Fiske, anni 1990.
Historical Society of North Dakota, 1952-1051.
La fotografia che la rappresenta negli anni 1900 con un grande cappello con piume e fiori, vestito aderente con colletto alto, giacca con i risvolti ricamati, è evidentemente una produzione di prestigio. Gates Kelly forse non possiede tutti i vestiti che indossa. Ciò nonostante ne conosce l’uso: la foto rivela la sua padronanza del vestito in quanto oggetto di rappresentazione. Nessun motivo indiano permette di identificarla come Sioux. Solo un medaglione, che sembra essere inciso con le sue iniziali, segnala discretamente la sua identità personale. Ma la fotografia le permette di mettersi in scena nella sua corrispondenza o all’interno del nucleo famigliare, dove già si trovano le fotografie in «abiti indiani» di sua madre, o in «abito da cittadino» di suo padre, fotografie provenienti dallo stesso studio di Fort Yates. Nel caso di Josephine, questa pratica, acquisita nel pensionato dove erano state scattate altre sue fotografie, se usata nella riserva viene a sostenere delle distinzioni d’abbigliamento che essa rafforza e rende perenni (poiché l’abito ricco, e la prosperità da esso segnalata, può scomparire, essere venduto o reso al suo proprietario). Ma il medium non implica necessariamente l’uso del vestito «bianco»: altre donne fanno invece la scelta di lasciarsi rappresentare col vestito indiano, decorato di conchiglie e di collane d’ossa, addirittura sono incoraggiate a farlo dai fotografi bianchi.
LA POVERTÀ D’ABBILGLIAMENTO COME IDENTITÀ
Carità di Stato
Quarant’anni dopo il censimento di Fort Yates, l’irruzione coloniale di un vestito e di un modo di vita straniero ha forse creato una fondamentale distinzione tra indiani in grado di manipolare i codici e di alimentare il loro guardaroba, e gli altri? È chiaro che non tutti accedono – ammesso che lo desiderino – all’offerta di abbigliamento che viene loro proposta. Nel momento in cui Josephine Gates Kelly si fa fotografare, altri abitanti della riserva sono ridotti a mendicare i loro abiti. William Cross abita a Wakpala, nel sud del territorio. Nel 1914, si rivolge alle più alte autorità del B.I.A. «Sono un semplice Indiano (ikce wicasa lakota)», egli spiega, prima di descrivere il suo completo così composto: mocassini, calze, pantalone (rattoppato), maglietta e camicia (trovati dove, non lo dice), giacca (regalata da un missionario), cappotto (prestato ad un conoscente e da questo perduto), soprabito (dato dai bianchi), guanti (in cuoio di cavallo). Chiede dei vestiti per se stesso e un vestito e uno scialle per sua moglie28. La sua richiesta corrisponde ad uno stereotipo sociale esistente e manipolato da bianchi e indiani quando necessario: il vecchio indiano, isolato e impoverito, che non potrebbe sopravvivere senza i sussidi dello Stato. Mentre altri riescono effettivamente, alla vigilia degli anni 1920, ad emanciparsi dagli abiti dati dal governo federale, questi appare sempre più come una forma di soccorso necessaria per tutta una parte della popolazione della riserva, che non riesce più a trarre profitto dal nuovo modo di vita agricolo. I pensionati nelle riserve o al di fuori di esse svolgono il ruolo di servizi sociali di sostituzione. Numerose sono le famiglie che vi mandano i loro figli perché possano mangiare correttamente e vestirsi decentemente e, da parte loro, i direttori di questi istituti fanno attenzione affinché i loro allievi non consumino i vestiti che sono loro forniti, per poterli riportare a casa propria durante le vacanze annue29.
Il vestito durante la Depressione
Sin dal 1921, quando i prezzi agricoli alti della Prima guerra mondiale sono rimasti soltanto un ricordo, l’economia di Standing Rock entra in recessione, il numero di coloro che hanno bisogno di questi aiuti aumenta, e il ruolo di riferimento rappresentato dal vestito degli indiani a Standing Rock cambia, per articolarsi intorno alla loro povertà. Tutti indossano il vestito bianco, ma il numero di quelli che lo devono alla carità dello Stato non diminuisce, addirittura aumenta durante gli anni magri del decennio 1920, e più ancora con la Grande Depressione. In qualche anno, certi individui perdono la loro indipendenza finanziaria e cambiano il rapporto con il vestito. Nel 1931, Harry Poor Dog è ancora in grado di portare e di farsi prestare (come ne testimonia forse il risvolto del pantalone) completo e scarpe lucidate che gli permettono di sfoggiare una rispettabilità cristiana e middle class davanti ai gradini della chiesa dove va a sposarsi. Due anni dopo le cose sono cambiate. Poor Dog scrive a Lynn Frazier, rappresentante del Dakota del nord al Congresso, per chiedere cibo e vestiti. Dal 1932 in poi egli ha già ricevuto una coperta, biancheria, calzini, mezzi guanti e guanti, golf, calze lunghe, calzature, un pantalone a sbuffo da donna, e pezze di tessuto stampato, per lui e la sua famiglia. Questa assistenza è fornita dallo Stato, sotto forma di surplus militare, e dalla Croce Rossa. Ma lui ne domanda ancora30.
«Family in front of their house», 1938
Archivi nazionali degli Stati Uniti, RG 75
«Indian women and young girls in front of tents», 1938
Archivi nazionali degli Stati Uniti, RG 75
La Grande Depressione vede il punto d’arrivo di un lungo processo, che inizia alla fine degli anni 1910, di declino delle aziende agricole indiane che non riescono più a nutrire le famiglie. Sospettato di rivolgersi allo Stato in modo abusivo, Poor Dog non è più, per l’agente locale del B.I.A., un Indiano che bisogna aiutare a convertirsi alla civiltà, bensì un individuo sospettato di approfittare di un sistema di previdenza sociale riservato agli Indiani, del quale l’agenzia federale si sforza di limitare l’accesso ai soli indigenti, in un momento in cui i bisogni si moltiplicano. Gli impiegati del B.I.A. accusano volentieri i loro protetti indiani di spendere il loro scarso peculio in acquisti sontuosi, come le calze di seta. L’indiano «ritornato alla coperta» è sostituito dall’ Indiano «dipendente», incapace di fare a meno dell’aiuto esteriore per sopravvivere
Due fotografie scattate a Standing Rock nel 1938, nell’ambito di una indagine del Senato, mettono in risalto questa povertà d’abbigliamento collegandola, secondo una tradizione che data dall’inizio del secolo, allo sfacelo o al carattere primitivo dell’alloggio. Nel primo caso, il fotografo realizza un ritratto di famiglia che avvicina gli Indiani a milioni di altri Americani poveri e rurali, colpiti dalla siccità, immortalati dai fotografi mobilitati dalle agenzie federali, come Dorothee Lange per la Farm Security Administration31. La casa a ossatura ricoperta di assi di legno, simbolo della assimilazione fino agli anni 1920, diventata nel frattempo fatiscente, è assurta a simbolo della povertà rurale, così come i vestiti in tessuto stampato delle donne, o le tute da lavoro degli uomini. Nel secondo caso, l’assimilazione tra vestito e alloggio è ancora più completa: la tenda che accoglie una madre di famiglia e le sue due figlie è isolata alla bell’e meglio con una coperta, ed è sempre con una coperta che questa donna si protegge dal freddo. Un tempo simbolo di resistenza passiva al progresso, la coperta diventa adesso il simbolo di uno scandalo: il presupposto abbandono degli Indiani dallo Stato, la loro regressione sociale, e la loro marginalizzazione in seno alla nazione americana.
Il codice d’abbigliamento della riserva
Eppure, accanto ad una impostazione sociologica che collega occupazione, patrimonio, reddito e vestito, oppure strettamente economica, che articola congiuntura e vestito, vorremmo qui insistere sull’esistenza di un codice d’abbigliamento proprio alla riserva, che non è riconducibile né a scelte strategiche personali né a questioni di povertà, e che si rivela pienamente agli antropologi tra gli anni 1930 e 1950.
“Josephine Gates Kelly’’, Frank B. Fiske, anni 1940?
Historical Society of North Dakota, 1952-2040.
Il punto di vista degli antropologi
La pioniera dell’attenzione ai cambiamenti culturali, Margaret Mead, pubblica nel 1932 una etnografia degli Indiani Omaha, In cui si dimostra particolarmente attenta ai problemi di abbigliamento32. Benché cosciente dei problemi legati alla povertà, ricolloca i vestiti negli avvenimenti sociali che rendono più complessa la visione semplicistica che ne hanno gli agenti del B.I.A., ossessionati dall’idea di una decadenza indiana espressa dal vestito. È vero che essa individua innanzitutto nella diversità dell’abbigliamento il segno di una dissoluzione culturale: le culture indiane «pure» sono ridotte a pochi elementi superstiti, a quei valori che ancora operano nonostante la pressione dei non Indiani. Ma Mead è attenta anche al modo in cui si instaura un controllo sociale per imporre una norma di abbigliamento originale. Durante le danze collettive, i giovani, che valorizzano la moda «bianca» e fanno in modo da mostrarlo ai più anziani per meglio affermare la loro indipendenza, abbandonano temporaneamente il loro completo di confezione. Il costume indiano di prima della riserva è sempre sfoggiato ed è oggetto di «dimostrazioni» volte a sottolineare un’identità indiana, così come nel secondo ritratto di Josephine Gates Kelly che data degli anni 1940, un’epoca in cui diventa la presidentessa del consiglio tribale della riserva, e in cui sfoggia un vestito in pelle con motivi di perle probabilmente ereditato da sua madre, esperta in questa tecnica. Ma il costume delle prime generazioni che hanno adottato il vestito bianco è a sua volta considerato «tradizionale». Mentre in passato il materiale importato era adattato al taglio indiano, adesso succede il contrario: i vestiti d’ora in poi possono rispettare la moda «bianca» ma devono essere concepiti in materie indiane e quindi considerate tradizionali33.
Old ways, new ways
A Standing Rock, Ella Deloria antropologa sioux che scriveva negli anni 1930, ha lasciato degli appunti rivelatori del modo in cui questo codice d’abbigliamento generazionale «funziona» dal punto di vista emotivo. Essa descrive il fatalismo dei più anziani nei confronti della moda ed abbigliamento che non approvano, ma di fronte ai quali sono impotenti, e ugualmente la loro capacità a esercitare un certo controllo tramite il ridicolo, quando una giovane donna si infila in fretta sopra i suoi vestiti moderni un vestito «all’antica34». Anche se nel momento in cui scrive essa considera che questo tipo di controllo sociale sia in netta regressione, l’osservazione di Deloria conferma un fenomeno notato dagli agenti del B.I.A.: l’adozione di vestiti, qualunque essi siano, è strettamente legata all’inserimento sociale delle persone nelle micro società dei villaggi della riserva, società che impongono ai loro membri un controllo tramite il senso del ridicolo e della vergogna. Inoltre, quest’ ultimo si esercita secondo norme diverse in funzione delle generazioni. Più che una dissoluzione del controllo sociale, gli osservatori mettono in risalto la sua frammentazione: la conformità del vestito è prima di tutto determinata e imposta da un gruppo di pari generazionali, più che dai parenti. La vergogna di avere dei genitori troppo abituati alle antiche «pratiche» (old ways) orienta così il comportamento dei bambini a scuola in un’età precoce35. La moda si impara sulle riviste36. Portare lo scialle diventa a poco a poco un indice di età37. Seguendo una traiettoria osservabile anche presso i loro vicini non Indiani, il vestito da lavoro stile «cowboy» con pantalone di denim blu, camicia, stivali e cappello, si allontana a poco a poco da un modo di vita centrato sui cavalli e sul bestiame, per diventare il vestito della mascolinità rurale, a sua volta sottoposto a delle mode38. Ancora più nascosta, ma non per questo meno reale, è la tenacia di nozioni divergenti sul comfort, che spiega il persistere del mocassino dopo la Seconda Guerra mondiale, o ancora il rifiuto insistente del cappello per le donne39.
“Harry Poor Dog and Rose High Cat wedding”, Frank B. Fiske, 1931.
Historical Society of North Dakota, 1952-0615.
Questa diversità generazionale è particolarmente evidente nella fotografia del matrimonio di Harry Poor Dog. Su una fotografia che mette in risalto soprattutto le donne, dietro agli sposi vediamo sciorinati i diversi usi dello scialle, che avvolge il corpo come una coperta, o fascia strettamente i bambini per portarli meglio, si confonde con sciarpe e foulard che si mettono intorno al capo. L’uniformità dell’abbigliamento, meno percettibile nei pochi uomini presenti, permette così di indovinare dei gap generazionali. Dietro la sposa, una giovane donna porta un foulard di colore chiaro che le copre soltanto la sommità del capo, e il suo scialle lascia intravedere un altro foulard dello stesso colore annodato intorno al collo. Anche i bambini introducono una nota dissonante per chi vorrebbe ritenere queste donne strettamente sotto controllo della «tradizione». Vestiti coi loro migliori cappottini della domenica, chiari, che contrastano con gli scialli neri delle loro genitrici, con calze lunghe, stivaletti e berretti comprati presso il negoziante locale, i bambini danno un’idea dell’orientamento affettivo del vestito. Le donne di età media o avanzata si attengono alla norma d’abbigliamento nata nei primi tempi della relegazione nella riserva, ma non per questo rifiutano ai loro figli e nipotini un bene di lusso che li avvicina alla norma della classe media americana40. Le scuole costituiscono in effetti dei microcosmi che suscitano le loro proprie regole, in cui si esercita sempre l’autorità dei maestri, che valorizza la pulizia, gli abiti stirati e ben assortiti. Però non avrebbero la capacità di imporre la competizione d’abbigliamento se non fossero anche le generazioni precedenti a partecipare al gioco, cosa che in effetti fanno prima ancora che i bambini raggiungano l’età scolastica. Viziare i bambini fa parte della complessa intersezione di valori autoctoni e importati. In accordo con un valore Lakota, non si rifiuta niente ai bambini, ma queste testimonianze di affetto al tempo stesso li inseriscono in un modo di consumo non Lakota.
Elvis e Miss Indian America
Dopo la Seconda Guerra mondiale, quando le riserve indiane non approfittano della prosperità che permette al resto del paese di ritrovare il consumo, in seno alle scuole si fa più intensa questa competizione intorno ai bambini. L’opposizione tra bambini considerati vestiti male dai loro pari e bambini alla moda vi ritrova le differenze sociali e razziali. Il bambino vestito con abiti troppo associati al modo di vita rurale può essere tacciato di «indiano» o di «squaw» dai suoi pari «sangue misto» alla moda41. Negli anni 1960, il vestito cristallizza così le tensioni tra coloro che riescono a giocare al gioco della moda e coloro che, ad ogni ritorno a scuola, devono ancora chiedere l’aiuto del B.I.A. per completare il loro guardaroba42. Dieci anni prima del movimento del «Red Power» che molto rapidamente si associa ad un utilizzo spettacolare degli elementi di costumi indiani presi a prestito a diverse generazioni (piume, bandane e camicie ricamate, cappelli da cowboy, ecc.), un visitatore di passaggio a Fort Yates nel 1957 si stupisce di trovare presso gli adolescenti della città dei «sosia perfetti» di Elvis Presley, con tagli di capelli «a banana» e pantaloni a zampa d’elefante, il che lo porta a dubitare dell’identità dei bambini che incontra: «ci voleva un considerevole sforzo per rendersi conto che essi erano indiani.» E aggiunge: «somigliano di più ai bambini meno a mal partito dei quartieri poveri delle grandi città» –un contrasto per lui stupefacente con i Pueblos del Sud ovest che conosce meglio, e il cui costume, anch’esso «bianco», sarebbe invece scollegato dalla moda giovane43. In realtà questo collegamento a dei circuiti nazionali non interessa soltanto i giovani, né il solo vestito «bianco». È sempre negli anni 1950 che nei pow wows si formalizza un circuito di promozione del vestito indiano tradizionale, che sfocia nella creazione di un concorso di» Miss Indian America», vinto nel 1954 e 1955 da delle abitanti di Standing Rock. Lungi dallo scomparire, il codice d’abbigliamento fissato negli anni 1930 sopravvive. Se la moda disturba le vecchie generazioni, essa è anche perfettamente integrata ai rapporti sociali nella riserva.
Parlare di codice d’abbigliamento da riserva non vuol dire essenzializzare il costume indiano, né tracciare un itinerario di assimilazione a norme nazionali irresistibili. Vestito rurale e da lavoro, vestito da povero, alla moda o «tradizionale», l’abito degli abitanti di Standing Rock è sottoposto a delle variazioni temporali estreme, tra prosperità e depressione, tempi di festa e tempo ordinario, scuola e vita domestica. La colonizzazione contribuisce molto a questo regime. La promozione del vestito bianco nelle chiese, le scuole, le società di cucito, le fiere continua fino agli anni 1970 e persino al di là. Essa si inscrive dapprima in un progetto di civilizzazione che diventa in seguito un progetto di sviluppo di attori economici indipendenti e di buoni cittadini americani. Ma come abbiamo visto, questa pressione esterna non sopprime mai la possibilità di scelta, di aggiustamenti, di selezioni, persino quando sfocia in una pauperizzazione a volte drammatica, come negli anni 1930. Se non vi è un vestito indiano, esiste però una varietà di modi di concepire il ruolo sociale del vestito nella riserva, che segue da vicino le linee spartiacque che attraversano delle società perturbate dalla comparsa di un nuovo individualismo e di una crescente marginalizzazione economica, fin dal periodo tra le due guerre. Il vestito è così oggetto di una forte variazione interindividuale e intergenerazionale. Ma la riserva non è tanto caratterizzata da un isolamento, mai totale e presto interrotto dall’arrivo della ferrovia e con essa delle ultime mode urbane, e dei bianchi che le portano, quanto da un’appropriazione complessa di queste ultime, come testimonia la fotografia. Questo codice di abbigliamento non è soltanto temporale, è anche affettivo, legato all’intrico dei rapporti di parentela, al desiderio di dimostrare una padronanza dei codici bianchi, o di testimoniare di una riuscita personale. E’ anche sociale: fin dalla creazione della riserva, gli individui e gruppi della riserva identificati come «sangue misto» si appropriano la legittimità dell’abbigliamento dei Bianchi. Eppure, tutti partecipano in un modo o nell’altro alla salvaguardia del know-how d’abbigliamento ereditato, così come alla creazione di un costume tradizionale sulla base del vestito bianco e delle tecniche di cucito imparate a scuola, pur sapendo ritornare, in alcuni contesti, ai costumi indiani che non siano soltanto del folklore. La riserva, isola di un arcipelago indiano in seno agli Stati Uniti ma anche testa di ponte dell’avanzata di un modo di vita americano nell’ «Ovest», è uno spazio sociale originale. E sono queste contraddizioni ad essere al tempo stesso risolte e aggravate dall’abbigliamento.