Nel fine settimana del 18 gennaio 1992 un incendio distrugge lo stabilimento K-way, la principale fabbrica di confezioni di Harnes1. Vicina a Courrières e a Hénin-Beaumont, nella periferia di Lens, la città operaia ha vissuto a lungo grazie alla miniera. Le donne erano principalmente impiegate nella separazione del carbone e nelle fabbriche tessili e di confezioni, per lo più installate nella regione di Lille. Profondamente segnata dalla chiusura delle miniere e del grande stabilimento chimico, Harnes registra quasi il 25% di disoccupazione a partire dagli anni ‘90, nonostante l’installazione di una fabbrica di patatine fritte surgelate, una di pezzi di ricambio per automobili e un’altra per il trattamento dei rifiuti industriali. Negli anni ‘50, la società Duhamel situata a Roubaix assicura il trasporto in corriera delle operaie della regione. A metà degli anni ‘60 la società decide di aprire una fabbrica di confezioni a Harnes. La manodopera viene formata in alcune scuole di economia domestica ma soprattutto nei laboratori di cucito. Per quarant’anni, la società impiega centinaia di operaie e qualche operaio che producono, tra l’altro, la famosa giacca a vento. Colette e Janine sono due ex-operaie. La prima inizia a lavorare da K-way a 14 anni, dove resterà per 8 anni fino al suo matrimonio, ritornando al cucito alla fine della sua carriera come rammendatrice. La seconda entra a far parte della società a 17 anni, come sarta, e farà carriera diventando responsabile della creazione. Ma come molte altre, dopo 36 anni di lavoro presso K-way, viene licenziata quando la società, acquistata nel 1990 dall’azienda italiana Pirelli, delocalizza tutta la produzione.
Fig. 1: s.t.
© Geoffroy Nicolaï
COLETTE, OPERAIA, 66 ANNI
Non mi dispiace parlarne, ma non ho tutte le informazioni perché ero giovane, avevo appena 14 anni. Ho ottenuto il diploma a ottobre e ho iniziato a dicembre, direttamente da Duhamel. A quei tempi era l’età minima per poter lavorare. O si arrivava fino al diploma di scuola dell’obbligo, come ho fatto io, oppure si faceva un istituto professionale. Ho riflettuto un po’ per capire se avrei frequentato un istituto professionale di sartoria, ma poi K-way ha aperto il suo stabilimento.Mio padre era coraggioso, per sopravvivere faceva due mestieri: dopo tutta la giornata in miniera, lavorava il marmo per riparare le pietre tombali dei cimiteri. In miniera, faceva l’agganciatore di carrelli. Da giovane, scendeva in miniera, ma dopo è risalito alla luce del giorno, lavorando sempre all’aperto con qualsiasi tempo. Poco prima di andare in pensione è diventato addetto agli scambi. Dopo la lavorazione del marmo, è stato operatore cinematografico, proiezionista, nei cinema Apollo e Eden di Montigny[-en-Gohelle], con mio zio. Allora, andavo al cinema gratis. Mio padre sapeva fare tutto, anche riparare un orologio: aveva le mani d’oro. Ha fabbricato la prima lavatrice di mia madre: un barile di vino tagliato a metà, due battenti e il motore di una motocicletta. Disse a mia madre «non ne posso più di vederti piegata sul catino per lavare il bucato.» Era veramente una schiavitù, soprattutto per le donne. Bisognava lavare, stirare, inamidare; le lavatrici e i frigoriferi sono arrivati dopo. A quei tempi, erano in tanti a fare un doppio lavoro, perché i salari in miniera non erano buoni.Mi sono detta: perché no alla K-way? Mi sarebbe piaciuto fare la sarta o la parrucchiera, e poi avrei portato a casa un po’ di soldi. Molte delle mie compagne di classe hanno scelto la fabbrica di confezioni, altre, come mia cognata, sono finite negli stabilimenti tessili a Roubaix... Prima era così. Anche a Billy[-Montigny] e Hénin[-Beaumont] c’era una grande ditta di confezioni. Era normale, nel Pas-de-Calais vi erano molte fabbriche sartoriali.
Interno della scuola di cucito Lens, circa 1905
Collezione Manuel Charpy.
Harnes, Grand’Place, veduta aerea, anni 1960.
Collezione Modes pratiques.
Aperture e chiusure
Aveva una formazione?
No, ma sapevo cucire, mia madre mi aveva insegnato e mi piaceva molto, iniziavo già a confezionarmi da sola i vestiti e delle mise eleganti. Mia madre mi aiutava con i cartamodelli perché non sapevo tagliare. Mi ha detto «decidi tu, è la tua vita.» C’era una scuola proprio sotto casa a Harnes, dove si poteva prendere il diploma professionale di sartoria. Ma sono andata a lavorare per portare a casa un po’ di soldi.
E c’erano ancora i laboratori di cucito?
Mia mamma ci ha lavorato. Quello che mi ha detto è che faceva le lenzuola, lenzuola fatte a mano Ma non mi ha mai detto cos’altro confezionavano. Faceva tutti i nostri abiti con la macchina da cucire. Lavorava anche nelle grandi case per gli impiegati, presso gli ingegneri [minerari], dove cuciva, veniva pagata poco ed era molto sfruttata. La gente a quei tempi lasciava correre, era troppo gentile.
Si ricorda dell’apertura della fabbrica Duhamel?
No, ero troppo giovane. Quello che so è che il signor Léon Duhamel si è fatto da solo, partendo dal gradino più basso. Credo che fosse qualcuno del nord, della regione di Lille e che abbia iniziato con un piccolo laboratorio. Mi avevano detto che si era fatto da solo, che era un operaio, e si vedeva dal suo modo di fare. Era un uomo normale, che sapeva cosa significava lavorare, era umile. Suo figlio e sua figlia, la signora Moinet, lavoravano in fabbrica e a un certo punto, Léon Duhamel gli ha passato le redini. I figli hanno ripreso l’attività, hanno ingrandito la fabbrica e aperto il negozio. Lui non era di Harnes, ma per la città K-way significava qualcosa. Hanno dato il suo nome alla via davanti alla fabbrica.
Quando lei ha iniziato a lavorare, c’era già l’azienda Duhamel?
Si, era il 1966 e l’azienda era già installata. C’erano già molti reparti diversi: quello dei pantaloni, i primi K-way e poi si è ingrandita ancora. Normalmente alla mia età non sarei dovuta stare al cucito, ero troppo giovane, ma all’ultimo anello della catena: al “taglio dei fili” o al controllo per vedere se c’erano difetti e verificare se la chiusura era messa bene. Ma siccome sapevo cucire, mi hanno messo alla macchina.E lì è stata subito una questione di rendimento. Avevo 14 anni e dovevo fare un certo numero di capi al giorno. Tutto dipendeva da quello che bisognava fare sulla giacca a vento. Io facevo le tasche, perché all’inizio si infilava dalla testa, come nello sketch di Dany Boon (comico francese, N.d.T.). C’era la chiusura con la tasca interna e poi i due piccoli elastici con il gancio per metterla a marsupio. Io attaccavo le cerniere lampo. Ognuna aveva un compito.
Un lavoro a catena
Quali erano i compiti?
Prima si iniziava con la piccola parte sullo sparato, poi applicavamo i fondi della tasca, con le cinture elastiche. La parte posteriore era cucita insieme, ma mi sembra che le maniche fossero a parte. Il ritmo era controllato. Avevamo una cassa con 15 o 20 articoli che doveva passare alla collega successiva. Tutto era calcolato perché i compiti avessero la stessa durata. Al minimo inconveniente, se la macchina aveva un guasto e il meccanico se la prendeva comoda, eravamo in ritardo e i pezzi si accumulavano. Bastava una sciocchezza, ad esempio se il ritocco non era impeccabile, e tutto si complicava. Allora, alcune mettevano le spille. Mi ricordo che una ragazza ne aveva ingoiata una perché le teneva in bocca. Si diceva che bisognava mangiare i porri. C’erano molti inconvenienti che potevano inceppare la catena. Le macchine erano molto rapide, mica come le cucitrici di bianco! Gli incidenti erano soprattutto alle dita, succedeva spesso che una spilla si conficcava in un dito, che sensazione strana.
Gli impianti di produzione, anni 1960.
Prima pagina del giornale degli stabilimenti Duhamel & Soconord / Archivio personale di Janine.
La postazione di lavoro era un normale tavolo di legno, con macchine differenti, di tutte le marche. Eravamo posizionate una dietro l’altra e le sedie erano di legno e metallo. All’inizio avevo la colonna vertebrale tutta marrone, era dura, restavamo sedute sempre nella stessa posizione.In mezzo al laboratorio c’era un magazzino con una signora, dove andavamo a cercare le nostre cerniere lampo, le spolette, ecc. Al cucito eravamo solo ragazze. Gli uomini erano al taglio, la pressa, la piega dei pantaloni, la stiratura... Vi erano anche dei meccanici sul posto, in permanenza, perché c’era sempre una macchina da pulire o riparare: le macchine da cucire a 6 bobine, a occhiello, a bottoni... Non mi sono mai informata per sapere se guadagnavano di più. In ogni caso, ero pagata due soldi: 1,03 franchi all’ora. Alla fine del mese arrivavo a malapena a 200 franchi netti. Ma a quei tempi non era male. C’erano molte giovani ragazze di età inferiore ai 18 anni.Il K-way non era tanto difficile da cucire: era plastificato ma molto sottile. Invece, se c’erano delle impunture, con quei materiali lì la cosa si complicava. Non potevamo smontarlo, perché restavano delle tracce, dei buchi. Quando attaccavo gli occhielli di areazione sotto le braccia, facevo solo le nervature...Ci accendevano la radio e canticchiavamo i successi della nostra epoca, il nostro patrimonio musicale, se così si può dire. Ma se c’era troppo rumore... Vi racconto un aneddoto. La mia postazione di lavoro era proprio davanti agli uffici, di fronte a me c’era l’aeratore, e il rumore passava dall’altra parte. Stavo dicendo: uno di questi giorni, scende e ci fa una lavata di capo perché facciamo troppo rumore. Manco a dirlo: stavamo ancora ridendo quando la porta si apre e Léon Duhamel si precipita verso di me, mi guarda e mi chiede cosa stessi facendo... E dice «sa, è bello quando si apre la porta di un laboratorio e si vede un così bel sorriso.» Ho detto: menomale! Si vedeva che era un ex-operaio. Suo figlio non era male... sua figlia, preferisco non parlarne, direi delle sciocchezze. Più severa, più pedante, era così.Io ho fatto un po’ di tutto da K-way. E siccome cucivo bene, senza vantarmi, ed ero minuziosa, ho lavorato in tutti i reparti. Quando avevo 17 anni, ho lavorato in un reparto di indumenti per il mare, molto caldi e molto eleganti. Erano fatti con un materiale speciale, leggermente imbottito, con un sottilissimo foglio di alluminio plastificato. Mi occupavo degli scaldacollo. Ma non era per questo che avevo dei bonus. Il lavoro era molto sorvegliato dalle caporeparto. Eravamo giovani e venivamo sfruttate, molto sfruttate. Non osavamo aprire bocca, altrimenti ci dicevano: bene, quella è la porta...Si iniziava tutte alla stessa ora, salvo quelle che avevano accumulato ritardo. Per esempio, la mia macchina a 6 bobine speciali per gli orli dei pantaloni, con aghi che riuscivano a malapena a prendere il tessuto perché tutti ricurvi, si guastava sempre. Allora, di mattina arrivavo prima per recuperare il ritardo e spesso la sera me ne andavo mezzora dopo... E in più ci sgridavano. Non è divertente quando sei giovane. A un certo momento, non stavo per niente bene, ho avuto una piccola depressione. Rendimento, rendimento, rendimento... Era un tormento.
Esisteva una rotazione dei posti di lavoro?
No. O meglio, sì, ma non ci chiedevano il nostro parere. So solo che alcune sono rimaste a lungo. Imparavano cose specifiche, tipo la bordatura con spighetta delle cinture. Altre sono rimaste quasi tutta la loro carriera. Quando la fabbrica ha chiuso, alcune hanno trovato lavoro altrove ma per molte, avendo già una certa età, non è stato facile.Alla fine, io sono rimasta dai 14 ai 22 anni, dopo mi sono sposata e ho avuto mio figlio. Mio marito lavorava, era spesso in trasferta ma guadagnava abbastanza bene. Avevamo una piccola casa con poche spese e quando mio figlio ha iniziato la scuola materna, ho ricominciato a lavorare, facevo i servizi dalle persone anziane. Non sono tornata da K-way, le amiche che erano rimaste lì non ne potevano più. Comunque era stancante: il lavoro a catena era cronometrato in base ai tempi delle persone che andavano più veloci. Il caporeparto principale voleva sempre dire la sua. Alcune erano fiere di essere veloci. Io aiutavo le colleghe che non tenevano il passo. Facevo i giubbotti K-way, applicavo le chiusure e bisognava fare in modo che le impunture cadessero bene. Nascondevo prima i miei pezzi nel cassetto: mi avvantaggiavo per il giorno dopo. E se ero in anticipo, aiutavo la vicina che mi stava dietro.
Cosa si produceva a parte la giacca a vento?
Non si producevano vestiti eleganti ma soprattutto capi per l’inverno, i parka. E poi pantaloni da città per uomo, venduti con il marchio K-way; questo era il reparto più grande. Credo che fossero venduti un po’ ovunque. Dopo, l’attività si è sviluppata e si facevano tanti capi diversi, anche eleganti, e lo sportswear.Non so chi creasse i vestiti, non eravamo al corrente. Quando arrivava un nuovo indumento, ci veniva indicato il nostro compito. Dopo aver fatto tutte le taglie si passava a un nuovo modello; riorganizzavamo le macchine, ma in generale lavoravamo per reparti, per zone: qui le giacche a vento, là i pantaloni, ecc. Andavamo avanti per settimane. Non mi ricordo né i volumi né il numero di pezzi che facevo al giorno. Non eravamo molto considerate, un vero peccato.
Pompieri in estate
Come veniva organizzato il lavoro secondo le stagioni?
In estate lavoravamo per l’inverno, si produceva per l’inverno. E in inverno preparavamo la primavera e l’estate. Si riorganizzavano i reparti. L’estate era faticosa; quando avevamo un materiale caldo, che chiamavamo “parrucchino”, era difficile da lavorare con il caldo, si appiccicava... Facevamo lunghi cappotti. Quando si tiene il tessuto addosso, sulle ginocchia... Se si hanno solo le maniche, va bene, altrimenti faceva un caldo... Un anno, c’è stata una forte calura e i pompieri sono venuti a innaffiare il tetto dei laboratori. Era insopportabile. D’inverno andava meglio, avevamo il riscaldamento. Si lavorava in grembiule.
Non ha mai avuto voglia di andarsene?
Le condizioni erano uguali per tutti e tutti si lamentavano. Io abitavo accanto, tutto sommato non era male.
Si ricorda di feste nel laboratorio?
Per niente. Non ai miei tempi, oppure non nel laboratorio. Ma c’era una cosa: potevamo andare in piscina. Avevamo un bagnino, in realtà era un istruttore di ginnastica che conoscevo, e andavamo a Hénin[-Beaumont]. Ci andavamo una volta a settimana, dopo il lavoro. Forse c’erano dei servizi per i bambini ma io ancora non ne avevo.
Inverno-primavera 1968
C’erano i sindacati da Duhamel?
Lì ho partecipato agli scioperi del 1968 e ho manifestato per strada. Gli scioperi da K-way sono stati molto importanti. Ero ribelle, ero giovane, vivevo ancora con i miei genitori ma non ero una stupida: sapevo bene che c’erano degli abusi. Ho fatto sciopero con una quarantina di amiche, ci chiamavano le “rivoluzionarie”. Penso che sia durato una settimana intera, poi hanno negoziato. Abbiamo cercato di ottenere delle cose... Ma non abbiamo ottenuto molto. C’era la CGT (Confederazione generale del lavoro) e la CFDT (Confederazione francese democratica del lavoro). Una donna della CGT, di cui non ricordo più il nome, parlava in modo schietto. Ma in generale non penso che le operaie fossero molto sindacalizzate.
Da dove venivano?
Io abitavo lì accanto ma c’erano dei bus di Duhamel che trasportavano la gente dei dintorni, di tutta la regione, almeno fino a Lille. Anche se ruotavamo, e parlavamo con le vicine di postazione, non conoscevo tutti.
Uno chalet in montagna
E cos’era Saint-Sorlin d’Arves in Savoia?
Ho una mia foto di quando avevo 16 anni, credo che fosse l’inverno del 1968, dove si vede una parte dello chalet, ma era molto grande. In alto c’erano le camere da letto, in basso la cucina, ecc. Eravamo quattro per stanza, con i letti a castello. Dovevamo essere una quarantina, una corriera piena zeppa, tanto che durante la salita verso lo chalet, avevamo paura. Non so se l’hanno comprato o fatto costruire, so solo che, per pagarci Saint-Sorlin, lavoravamo mezzora in più tutte le sere per un anno. Però erano le nostre vacanze invernali. E questa era una cosa bella perché non eravamo mai state sulla neve, i nostri genitori non potevano permetterselo, molte di noi non erano mai andate da nessuna parte, era molto divertente. Nello chalet c’era anche la televisione, potevamo ballare... Ma c’era anche un laboratorio di cucito. Avevano portato tutte le macchine. Ci alzavamo alle 6 di mattina, facevamo una rapida colazione e poi si riassettava: c’era un tabellone con le faccende domestiche divise per stanza. Facevamo tutto. Alle 7.30 iniziavamo a lavorare.
Colette e le giovani operaie degli stabilimenti, nello chalet di Saint-Sorlin d’Arves, Savoia, inverno 1968.
Archivio personale di Colette.
Facevate dei K-way in questo chalet?
No, io facevo pantaloncini corti in tessuto elegante, per bambini di due anni. Tutte le ragazze facevano questo. Io mettevo una cintura con un elastico, non vi dico che confusione. Lavoravamo fino alle 11.00 - 11.30, con una piccola pausa alle 9.00, e poi si passava alle faccende domestiche. C’erano delle cuoche ma le aiutavamo, lavavamo i piatti, ecc. e dopo prendevamo gli scarponi e tutto l’equipaggiamento e andavamo a sciare. Alle 16.30 tornavamo per fare merenda. Dopo mangiato, potevamo andare al villaggio ma dovevamo rientrare entro le 22.00 esatte. Dopo chiudevano tutto e allora scavalcavamo... Al villaggio, c’erano i ragazzi, allo chalet ce n’erano pochi, eravamo soprattutto ragazze di tutte le età, fino ai 25 anni. Se si era già sposate, non ne valeva la pena. Restavamo tre settimane, io ci sono stata solo due volte. Non venivano contate come ferie perché lavoravamo sul posto e anche mezzora di più in fabbrica.
Rammendi e vetrine
Cosa ha fatto dopo K-way?
Mi sono occupata dei miei due figli e ogni tanto facevo i servizi. Poi nel 1983, quando ci siamo comprati casa, ho sentito dire che aprivano un supermercato Banco, là dove ora c’è Carrefour, e i proprietari sono venuti ad abitare nella mia via. Sono andata a lavorare alla cassa, anche se all’inizio avrei dovuto occuparmi del banco formaggi. Ho fatto la cassiera per due anni. Mi piaceva perché mi piace il contatto umano; la gente che arrivava alla cassa con l’aria abbattuta, ripartiva di buonumore, o almeno un po’ rinfrancata. Ho subito un licenziamento economico. Dopo un periodo di disoccupazione, ho ritrovato un impiego come commessa-rammendatrice presso Nicole Cabaj, un camiciaio conosciuto, a Billy-Montigny, dove sono rimasta otto anni. Era molto famoso: avevamo Ted Lapidus, Cardin… Facevamo soprattutto rammendi di pantaloni e gli orli. Accorciavamo anche le maniche delle giacche, c’era molto lavoro da fare ma era piacevole. Accorciavamo anche i polsini delle camicie per quelli che... non avevano le braccia abbastanza lunghe! C’era un laboratorio sul posto, in una piccola stanza laterale. Sono dei bei ricordi, anche se un capo è sempre un capo. Con la mia collega, che aveva undici anni di meno, andavamo molto d’accordo. Vestivamo gli uomini, alcuni venivano in coppia, altri da soli. Abbiamo avuto dei bei momenti di divertimento, i clienti erano simpatici. E poi allestivamo delle belle vetrine: non si trattava solo di mettere gli abiti su un manichino, la mia capa aveva molto gusto. Organizzavamo la vetrina con i nuovi modelli, con i colori; avevamo delle cravatte «Carnevale di colori», delle riproduzioni di Gauguin in seta, veramente magnifiche. Le vetrine cambiavano continuamente, ma gli incassi diminuivano e siccome eravamo due, una era diventata di troppo. Avevo 52 anni! Avevamo finito di pagare la casa, avevo voglia di vedere mio marito, che era sempre stato in trasferta, e i miei figli e nipoti. Andavo a lavorare in negozio anche la domenica mattina, perché c’era il mercato, ma non mi pagavano. Ho preparato tutte le carte per fare causa... Per vincere, avevo bisogno di lettere dei clienti della domenica che testimoniassero sulla mia presenza. Erano disposti a scrivere la lettera ma senza firmarla, non volevano nuocere al proprietario. Perciò ho deciso di lasciare stare.
Eredità
Cuce ancora?
Quando devo rammendare qualcosa, ma cucio sempre di meno. Se compro un indumento e ha qualcosa che non va, lo scucio e lo rifaccio daccapo. Ma con le mie mani, non posso cucire più di due ore. Anche solo per il fatto di tirare i fili, poi la sera mi fanno male. Guardi, le mie mani sono piene di segni, i pollici sono attaccati, perché tenevo sempre le dita così [Collette fa il gesto], sempre a pinza, per tenere l’ago. Tutti storti. A volte mi fanno male. Quando sono andata dal radiologo, mi ha detto «che ha fatto alle mani!» Ho l’eredità genetica di mia madre... anche lei era sarta. E poi è stata anche la cassa perché ai miei tempi registravamo tutto a mano...Cucio ancora qualcosa per i miei nipoti. Ma per i giovani non ne vale la pena: quello che potrei fare io non gli piacerebbe. Mia nipote più grande ha 18 anni. I giovani hanno gusti diversi dai nostri.
Come si vestiva lei?
In modo assolutamente normale! Mi facevo qualche gonna, ma di solito le compravo. Invece, quando siamo andate sulla neve, ci avevano dato delle giacche a vento molto colorate, gialle, arancioni, rosa fucsia... Gli facevamo pubblicità! E il resto dell’anno portavamo un K-way quando pioveva. Sono dei bei ricordi nonostante il lavoro.
JANINE, OPERAIA DIVENTATA MODELLISTA, 70 ANNI
Dopo tutti questi anni passati da K-way, deve conoscere bene la sua storia?
Sì. Nel 1964, nonostante fosse una giornata piovosa, Léon-Claude Duhamel era seduto ai tavolini del Café de la Paix a Parigi. Vedendo passare un bambino vestito con una giacca di nylon rosso, si è detto: si potrebbe realizzare un indumento per la pioggia. La società Duhamel esisteva a Roubaix [dal 1945], poi si è installata a Harnes [nel 1964] dove produceva qualche piccola linea. Facevano pantaloni da bambino, cappucci per la pioggia, perché prima si portavano le mantelline da pioggia.Mi hanno detto che potrei scrivere un’enciclopedia. Sa perché la marca si chiama K-way? Il nome del marchio è venuto dal fatto che la giacca non si sarebbe venduta bene chiamandola “en-cas pour la pluie” (in caso di pioggia). Il pubblicitario trovava che l’assonanza non era buona ed inoltre «ci vorrebbe un nome con un “way” alla fine perché gli americani usano molto questo termine». Allora Léon Duhamel gli ha risposto: «Lei ci tiene al suo “way” e noi amiamo il nostro “cas”, allora perché no “Cas-Way”», e il «cas» divenne una «K», e diede vita a «K-Way».Vi ho lavorato 36 anni, quando sono stata licenziata avevo 56 anni: una vita, era la mia vita. D’altronde mio marito diceva sempre: «noi veniamo in seconda e terza posizione. Primo K-way, seconda sua figlia e terzo suo marito.» Dopo, sono andata a lavorare due anni da Vestra, poi mi hanno offerto un posto da Alain Manoukian a Parigi, ma non ho accettato. Non mi andava di andare fino a Parigi a 58 anni suonati. Mi è toccata la disoccupazione per 2 anni, ma ho preferito lasciare quel posto a una collega. Che è stata promossa, poi di nuovo licenziata e alla fine ha terminato la sua carriera da Vertbaudet, ai 3 Suisses, a Roubaix, come responsabile della creazione, veramente una bella carriera.
La scuola di economia domestica e Sorella Visitazione
Il sito dell’ex fabbrica K-way, rue Léon Duhamel, Harnes, ottobre 2017.
© Manuel Charpy.
In che anno Duhamel si è installato a Harnes?
Doveva essere nei primi anni ‘60, io sono stata assunta a luglio del 1965. Alcune mie amiche hanno lavorato nei primi stabilimenti Duhamel, sin dall’inizio, a Roubaix. Ci andavano in autobus. Il signor Léon Duhamel si è detto: «sono ragazze coraggiose, lavoratrici, che percorrono il tragitto tutti i giorni, l’ideale sarebbe di andare a stabilirsi a Harnes, vicino casa loro», e così l’azienda Duhamel si è trasferita qui.
Le ragazze che lavoravano da K-way avevano tutte una formazione da sarta?
No, non necessariamente. A Harnes c’era un centro di formazione, si chiamava la scuola di economia domestica, dopo è stato trasformato in una scuola professionale. Si usciva da lì con un diploma professionale di taglio, cucito, cucina, si imparava a fare da mangiare, a stirare; c’erano corsi di scienze naturali, di legge, nozioni di morale, con «sorella Visitazione». Prima c’erano molte suore negli ospedali e un po’ ovunque. D’altronde, prima della costruzione della fabbrica Duhamel, erano le suore che gestivano il laboratorio di cucito che affittava Léon Duhamel. Alcune ragazze non avevano neanche fatto la scuola di economia domestica e a 14 anni andavano a lavorare direttamente da Duhamel, prima a Roubaix e poi a Harnes. Oggi queste stesse ragazze hanno 75 anni. Prima, a 14 anni, si finiva la scuola e si trovava lavoro. Io ho fatto tre anni di scuola di economia domestica. Quando finii, Chantale, un’amica che lavorava già al reparto pantaloni, mi disse: «sai, stanno assumendo, vieni!» Mi sono presentata e ho iniziato il 5 luglio.
Questo laboratorio era dunque sotto la supervisione dalle suore? Dov’era situato?
Si trovava nei caseggiati accanto al cinema Novéac, poi in un vecchio mulino ristrutturato vicino al centro di Harnes. Penso che fosse affittato. Quella che ha partecipato alla creazione della giacca a vento era una mia amica, Hélène, è lei che ha lanciato le prime giacche impermeabili, insieme a Léon-Claude Duhamel. Lavorava già con le suore.Poi hanno costruito la fabbrica, le «mezzelune», laboratori e uffici. Quando sono stata assunta, la mia caporeparto era Simone Peters. Siccome venivo da un istituto tecnico di taglio e cucito, mi hanno messa in un reparto dove si confezionava di tutto: pantaloni, gonne... e di lato c’era il reparto delle mantelline. Si trattava di impermeabili e cappucci realizzati in un tessuto plastificato. Il lavoro a catena iniziava con il laboratorio di taglio, poi le ragazze stendevano delle strisce di colla con i rulli e assemblavano i pezzi. Sopra le loro teste c’erano gli essiccatoi. Dopo c’era la macchina attaccabottoni, era Michèle che se ne occupava, faceva un rumore pazzesco quando cuciva i bottoni.In seguito, hanno creato un nuovo reparto immenso, quello dei pantaloni. C’erano già 400 persone che lavoravano qui a Harnes, prima della giacca a vento.
Pantaloni e tessuto 38
Che tipo di pantaloni erano?
Pantaloni da città per uomo, poi hanno creato gli 888, una vera specialità, dei pantaloni con l’Elastis per non fargli prendere la forma del ginocchio. Molto utili per le persone che lavoravano sedute. Una produzione incredibile, a tonnellate. In ogni postazione c’era una capogruppo, fino alla fine della catena di montaggio: dopo il taglio, tasche a filetto, sorfilatura, assemblaggio, patte, finitura, stiratura fino al controllo. Il capo era Léon Duhamel. Io invece ero nel reparto dove si produceva la giacca a vento, per noi era terribile, perché non eravamo organizzati bene, il tessuto scivolava continuamente durante il taglio, il tessuto 38...
Il tessuto 38?
Era un tessuto impermeabile con resina sul rovescio, era fabbricato in Belgio da Sofinal. Ho conservato la giacca a vento con la medaglia stampata dove c’è scritto «In Fabelnyl, il vero K-way». Era il 1965. Non era molto impermeabile. A partire dalla sua tasca frontale, Léon-Claude ha avuto l’idea: «e se lo ripieghiamo all’interno della sua tasca?». Dopo è venuto il tessuto baiadera e poi la tasca-marsupio; posso prestarvelo se volete fare delle foto, ma dovete restituirmelo, fa parte della mia storia.Questo tessuto era difficile da cucire, scivolava, e non eravamo attrezzati bene. Abbiamo dovuto adattarci e imparare come fare. Utilizzavamo aghi e piedini speciali in Teflon, perché il tessuto si riscaldava e siccome il rovescio era una spalmatura, la resina restava sugli aghi. Bisognava avere destrezza, ma ce l’abbiamo fatta.
La prima giacca a vento K-way, 1965.
© Manuel Charpy.
Quante operaie lavoravano al K-way?
All’inizio non eravamo molte, poi siamo aumentate nettamente. Dopo Harnes, tutta la produzione della giacca a vento si è spostata a Ostricourt [a 10 chilometri]. La società Duhamel era la più grande azienda di Harnes, e persino della regione. Le ragazze arrivavano da Lens, Courrières, Harnes; solo la direzione veniva da Lille e dintorni.
22 minuti
Com’era organizzato il lavoro? Facevate il turno 3x8?
No, lavoravamo alla giornata; il lavoro era cronometrato perché bisognava produrre, andare sempre più veloce. Le fasi erano il taglio, il lancio, il montaggio della chiusura, la preparazione della tasca-marsupio, l’assemblaggio dei fondi, il montaggio della chiusura anteriore, il montaggio delle strisce anteriori; dopo, poiché aveva le maniche a kimono, facevamo la cucitura dietro al centro, l’impuntura, poi assemblavamo e mettevamo gli elastici ai polsi, in fondo un orlo con un cordoncino, un fermacorda, montaggio del cappuccio, bordatura con spighetta e orlo del cappuccio. Credo che fossero in tutto 22 minuti per una giacca a vento.
Prima di salire di grado, ha lavorato alla catena di montaggio?
Nel 1968, l’anno in cui mi sono sposata, facevo parte di un piccolo laboratorio di prototipi. La responsabile del laboratorio è stata promossa e, alla fine, ho avuto io la responsabilità del prototipo. Avevano assunto una modellista per fare i cartamodelli e lo sviluppo delle taglie dei vestiti che il direttore tecnico, il signor Provoyeur, voleva produrre. Ma la modellista si è sbagliata: ha fatto delle taglie di impermeabili che ci stavamo dentro in dieci. Allora, il signor Ducros, direttore della produzione, mi ha detto: «Janine, vorremmo che facesse una prova per il posto di modellista». E così ho avuto il posto. E in seguito è stato un crescendo, ho lavorato 40 anni per K-way.
Come si stava al laboratorio?
Le relazioni di lavoro erano buone da Duhamel. C’erano alti e bassi con i delegati, ma io ne ho un buon ricordo. Lo stile di Duhamel era abbastanza paternalista, d’altronde, nel 1968, ha creato uno chalet a Saint-Sorlin. Là, le ragazze lavoravano di mattina al laboratorio e il pomeriggio andavano a sciare. Il principale forniva i vestiti: piumino dai colori flashy: turchese, fucsia, e fuseaux neri. Un bus pieno era partito da Harnes per la montagna proprio al momento degli scioperi del 1968. Queste gite sono andate avanti per vari anni fino a quando alcune ragazze, che avevano in media 17 anni, hanno fatto delle sciocchezze e le trasferte sono state interrotte. Alla fine, Duhamel ha venduto lo chalet.C’erano delle feste: quella di Santa Caterina era organizzata nei laboratori e anche Sant’Anna, la patrona delle sarte. E festeggiavamo anche il Natale. Per premiare la mia squadra, io organizzavo delle feste alla fine delle collezioni di Pasqua e Natale. Le ragazze lavoravano sodo. Ho anche festeggiato i miei 25 e 30 anni di presenza presso K-way. Poi, tutto questo è finito, è stato uno sfacelo. Purtroppo.
Il team creativo.
Louise, Jeannette, Élisabeth, Janine, Maryse, Danièle, Lucien, Jean-Charles, Hélène.
Archivio personale di Janine.
Il team a Brebières (Pas-de-Calais), 1992.
Il team dopo l’incendio della fabrica aspettando la ricostruzione a Harnes: Évelyne, Danièle, Jeannette, Nadine, Paula, Jean-Charles, Alfreda, Christine, Hélène, Louisette, Dominique, Louise, Janine.
Archivio personale di Janine.
L’arrivo dell’inverno
Lei ha lavorato solo sui prodotti K-way?
E molto anche sull’abbigliamento sportivo invernale. Da K-way, la creazione si limitava ai colori e alle materie tessili. Abbiamo seguito l’evoluzione della tecnologia e dei modelli, le finiture, i cappucci e i tagli da migliorare. E soprattutto le materie tessili. Abbiamo lavorato con il tessuto Gore-Tex. Ma abbiamo smesso perché i proprietari volevano che sui vestiti fosse dato più risalto al loro marchio «Gore Tex by K-way». Invece, il signor Duhamel voleva «K-way by Gore Tex». Alla fine, abbiamo creato il K-way 2000 in un tessuto traspirante prodotto da Sofinal in Belgio.
Quando avete iniziato a produrre abbigliamento per lo sci?
È stato quando è arrivato il signor Provoyeur. Io ho iniziato a lavorare con lui nel 1972. Lui veniva da un laboratorio di pantaloni di alta gamma per uomo. Vestivamo l’ESF: le scuole di sci francesi. Misuravo il giro fianchi degli istruttori di sci (ride) e li vestivamo su misura e gratis. Poi abbiamo fornito l’abbigliamento al Comitato organizzatore dei Giochi olimpici invernali a Albertville [1992]. Vestiti molto belli che per prepararli ci sono voluti 3 anni.
Parka argento facente parte dell’abito ufficiale dei Giochi olimpici del 1992.
© Manuel Charpy.
Il team tecnico in vacanza sulla neve
Sylvie (responsabile del prodotto), Agnès, Johanna, (stilista), Yves, (direttore del prodotto).
Archivio personale di Janine.
Abbiamo anche lavorato le piume: quanto si soffiava... ma abbiamo realizzato dei veri piumini qui a Harnes. Abbiamo dovuto imparare la tecnologia; si trattava di un sistema di rivestimento, realizzavamo la parte anteriore, posteriore e le maniche in diversi esemplari. C’era il rivestimento interno, a compartimenti, nei quali si soffiavano le piume, e poi si lavorava tra la fodera e il tessuto superiore. Era una cucitura speciale, piqué rivoltato e assemblato, con cucitura a nervatura, affinché le piume non svolazzassero via.
K-way si è diversificata?
Molto. Per quanto riguarda le giacche a vento, ci sono stati i vestiti da caccia e da ciclismo. E gli articoli di moda. Abbiamo lavorato l’abbigliamento per il mare, da navigazione, con tutte le cuciture nastrate. Abbiamo vestito i paracadutisti francesi con tute speciali. E poi l’abbigliamento da golf con il giocatore di Biarritz, Olazábal, e lo stilista Pierre Martinez. Collezioni da tennis, in maglia, con Patti Connors; vestiti in pile con Jean-Louis Étienne, che testava i prodotti sulla barca K-way; abbigliamento per motociclisti con Dalmasso, con cuciture termonastrate. Abbiamo lavorato con Jean-Charles de Castelbajac, il poncho a due posti, ne ho uno, posso mostrarvelo. Andavamo a lavorare da lui perché ci faceva i disegni sempre all’ultimo minuto: i grandi stilisti sono così, la loro sfilata è sempre all’ultimo minuto. Abbiamo fatto il chiodo impermeabile nei colori Castelbajac. Abbiamo lavorato con Sting e Raoni, l’indiano dell’Amazzonia; per loro abbiamo realizzato delle t-shirt in tessuto ecologico. Abbiamo lavorato anche con il grande sciatore Georges Pesé: ci faceva da consulente ma disegnava anche figurini, testava i vestiti e li pubblicizzava. Abbiamo lavorato con Dominique Peclers, per la maglieria e l’abbigliamento da sci. Abbiamo persino prodotto calzature.
Quante collezioni c’erano all’anno?
Due, estate e inverno, quindi due presentazioni, e poi la collezione permanente, ossia tutti i capi impermeabili. In generale, aggiungevamo dei pezzi alla collezione permanente, per stare al passo con la moda. Le collezioni riguardavano soprattutto lo sci e la maglieria. E tutto era venduto con il marchio K-way. Ho conservato i piani di collezione, lavoravamo con i figurini e sceglievamo i tessuti. Questa era la creazione e realizzavamo dei vestiti magnifici. Questa collezione ha funzionato a meraviglia: il tema era l’“Alaska”, ed è stata creata dalla stilista dell’epoca, Johanna Guinamard. Si è venduta a tonnellate! Ed è durata almeno 5 anni. Quando un modello funzionava bene, per gli sport invernali, ne potevamo produrre circa 33.000 esemplari.
Esistevano collezioni estive?
Sì, dei capi rivestiti in spugna oppure reversibili. Esistevano anche giacche a vento invernali rivestite in pile. All’inizio, lavoravamo con Malden che produceva il tessuto Polartec, il migliore a quei tempi. Abbiamo anche realizzato una giacca a vento rivestita di ratina prodotta nella regione, simile al pile ma in acrilico. È diventata popolare perché più economica. Comunque, la produzione estiva era inferiore a quella invernale.
La fine delle farfalle e l’ufficio metodi.
Quali erano le varie fasi del lavoro?
Si lavorava sempre una stagione in anticipo. Poiché lo stilista deve avere come obiettivo l’anno successivo, sia in termini di colori che di tessuti, per i prototipi, lavoravamo sempre con un anno di anticipo. Creavamo i primi prototipi, poi facevamo una selezione insieme alla direzione, e in seguito realizzavamo una quarantina di modelli per ciascun rappresentante in Francia e all’estero. Nella scheda tecnica c’era un figurino e un vestito, ma siccome spesso non erano pronti, si attaccava sul vestito un bigliettino svolazzante che ad esempio diceva «attenzione, chiusura sinistra verso la destra.» Ma non mi piaceva presentare prototipi incompleti. Allora un giorno ho detto alla mia collega «Yvette, così non va bene, d’ora in poi quando inviamo un vestito con la scheda tecnica, non ci devono più essere farfalline sul vestito.» Col passare del tempo ci siamo riuscite. Le ragazze si sono tutte perfezionate. Due ragazze le hanno spostate dalla catena di montaggio all’ufficio metodi: una faceva i metodi e l’altra i tempi.Le leggo un appunto del signor Léon-Claude Duhamel che ho ritrovato: «Venerdì 23 giugno, ore 22.00, sono a casa davanti alla televisione, squilla il telefono, è Janine Salamon che mi chiama: “Sono molto seccata perché arrivando a Montreal oggi pomeriggio, ho constatato che alla dogana sono stati rubati una decina di giubbotti. Per 8 di loro non fa niente perché ho i doppioni, ma gli altri 2 sono molto importanti per la presentazione, ne ho veramente bisogno.” “Ma Janine, mi dispiace, ma non posso fare niente per lei, domani prendo l’aereo per Montreal”. “Appunto, ho telefonato a cinque delle mie ragazze che sono d’accordo di andare immediatamente in fabbrica e farli questa notte. Le chiedo solo di passarli a prendere domani mattina”. Il giorno dopo alle 8.00 il pacco era pronto». Questo è quello che rimpiango oggi, la gente non ha più tutto questo amore per il lavoro. Non c’è più questa fedeltà, questa amicizia.
E l’ufficio metodi?
Come si assembla un vestito? Questo è l’ufficio metodi. L’ufficio tempi è all’interno dell’ufficio metodi: tempo di produzione del vestito, prezzo di costo. Nell’ufficio c’erano anche le persone che preparavano le schede tecniche. All’inizio c’era un collega, Maurice, che aveva studiato al Cetih dove aveva imparato il cronometraggio e i metodi. In seguito, dopo la sua partenza, alcune ragazze interne si sono perfezionate e hanno messo su l’ufficio; eravamo tutte autodidatte.
Sfilate
Come venivano diffuse le collezioni?
Ogni rappresentante riceveva i suoi prototipi e cominciava a girare per presentarli. Dopo qualche settimana, tornavano con un campionario di prodotti e quantità richiesti e si avviava la produzione. Uno staff si occupava della logistica, dell’acquisto delle materie prime, a volte molto in anticipo. All’inizio, questi materiali venivano consegnati da noi a Harnes, in seguito direttamente sui luoghi di produzione all’estero.Per la produzione in Thailandia, a volte ci volevano da tre settimane a un mese per ricevere la consegna della merce. Era necessario riempire una nave, e non c’erano solo le nostre cose. Io non stavo più alla produzione, c’era tutta una squadra formata da responsabili di produzione, commerciali, un direttore commerciale e poi tutti i rappresentanti. Alle riunioni si diceva: «bisogna andare verso questo prodotto perché vende di più…» E ci sono state anche grandi campagne pubblicitarie. Hanno registrato persino dei CD.
Si facevano le sfilate per presentare le collezioni?
Ogni volta. Al salone della porte de Versailles, ogni stagione, estate e inverno. Ci andavo anch’io. Presentavamo le collezioni anche alle filiali in Canada, Italia e Portogallo. I rappresentanti della marca indossavano i nostri vestiti. A Harnes, per presentare la collezione alla direzione o ai rappresentanti facevamo sfilare i figli del personale.
La professione è cambiata tra gli anni ‘60 e ‘80. Ha seguito una formazione durante la sua carriera?
Ho seguito la formazione Lectra, un software per lo sviluppo taglie, perché dovevamo ricevere nuovo materiale. Ho anche dovuto fare la formazione per il laser che serviva a ritagliare i modelli. Sono andata da Maniglier, che confezionava completi, perché avevano ricevuto il materiale prima di noi. Tutto quello che si faceva a mano, ora bisognava farlo al computer. Era terribile per delle ragazze come noi. Io stessa ho formato tre o quattro persone e poi loro ci lavoravano. Prima di Lectra Systems, avevamo il Gerber, degli americani, poi il signor Duhamel ha deciso di cambiare. Lectra era un’azienda francese, con sede a Bordeaux, che all’inizio ha copiato molto dagli americani. Dunque, la creazione e lo sviluppo taglie si facevano sullo schermo, e così si creavano i modelli. Ora, invece, dallo schermo si passa direttamente al taglio: il capo viene trapuntato e ritagliato al laser.
Lei era caporeparto?
Ho sempre lavorato con responsabili di prodotto che guadagnavano più di me, fino al giorno in cui mi sono arrabbiata. Sono sempre stata la responsabile della creazione, ho ancora il mio biglietto da visita. Lavoravo insieme a 45 persone. Poi hanno iniziato a licenziare.
Viaggio a Seoul.
Janine, il direttore della fabbrica coreana e Sylvie, responsabile del prodotto.
Archivio personale di Janine.
Visita della produzione a Jakarta.
Janine, Alain (direttore), Michèle (responsabile del controllo qualità), Yvon (direttore della logistica).
Archivio personale di Janine.
I container di Le Havre
Quando è iniziata la delocalizzazione?
Prima a Maia in Portogallo e a Casablanca in Marocco, hanno lavorato a lungo per noi negli anni ‘80. Poi abbiamo delocalizzato in Polonia, Thailandia, a Seul e a Giacarta. Sono io che me ne sono occupata: installavo i laboratori e formavo le operaie. E sì, era un po’ un controsenso...La gente di qui si ricorda degli enormi camion K-way che attraversavano Harnes negli anni ‘80.K-way aveva i propri autotrasportatori, che facevano avanti e indietro tra Harnes, il Portogallo e il Marocco. Partivano ogni settimana e trasportavano qui tutta la produzione che era immagazzinata nei nostri depositi. Il controllo dei prodotti si faceva qui, e poi si spedivano i colli. C’erano delle ragazze di qui, Michèle e Micheline, che andavano a verificare la qualità della produzione in alcune fabbriche situate nel nord della Thailandia. Perché a Bangkok la grande unità di produzione lavorava con delle fabbriche di Chiangmai.Ci recavamo all’estero per negoziare i prezzi e riuscivamo a concordare un prezzo corretto con materie prime corrette. Poi, tutto era nelle mani della società che produceva e che doveva fornirci i prodotti confezionati. A volte c’erano dei disaccordi in termini di produzione ed eravamo obbligati a rispedire indietro la merce. Abbiamo anche avuto problemi con la dogana, soprattutto in Francia con i grandi container a Le Havre. Il container a volte restava bloccato lì con i vestiti dentro.Poiché in quei paesi c’è molta umidità, dovevamo avvolgere i cursori delle cerniere con carta di seta, per evitare che macchiassero i vestiti.
Quando andava all’estero, quanto tempo ci restava?
Da 8 a 10 giorni. Partivo con un responsabile di prodotto o un direttore. Andavamo nelle aziende subappaltatrici. È così che mi sono resa conto che stavamo dando via il nostro savoir-faire. E ci sono rimasta molto male, perché ho capito che saremmo stati costretti a licenziare sempre di più. Siamo diventati un piccolo gruppo e siamo stati comprati da Pirelli. Gli italiani erano alla guida. Non andavamo molto bene a quei tempi con tutti quei cambiamenti al vertice. Poi è arrivato il signor Alain Nemarcq. Oggi è amministratore delegato da Monbousin Place Vendôme a Parigi. Era qualcuno a cui ci si rivolgeva per rimettere in sesto un’azienda, per fare pulizia. Lavorava da Vestra in Alsazia, un’impresa associata a Biedermann, che faceva completi da uomo a Hénin-Beaumont, un eccellente prêt-à-porter. E lavorava contemporaneamente da K-way. Quindi aveva due incarichi, uno da Vestra e uno da K-way. Quando è arrivato ci sono stati moltissimi cambiamenti.Dunque, più andavo all’estero, più trasferivo il mio savoir-faire. Li ho anche formati sul Lectra. All’inizio spedivamo le nostre materie prime da qui, l’ovattina, ad esempio, la compravamo da Peg a Lione. Le chiusure YKK le compravamo già sul posto, in Thailandia, perché le fabbricavano là. Dopo, le materie prime bisognava trovarle sul posto, e quindi dovevamo negoziare. Partivo con Alain Nemarcq per tutto ciò che riguardava la negoziazione dei prezzi. A Harnes, ho installato un ufficio metodi, un ufficio dove le ragazze lavoravano al computer gli assemblaggi dei vestiti e i colori. Le mie ragazze hanno imparato qualche parola d’inglese per poter preparare le schede tecniche destinate all’estero. E laggiù ricevevano il lavoro cotto e mangiato.L’ultima volta che sono andata a Giacarta, ho sentito il sig. Nemarcq dire «mi dispiace dirglielo.» E là ho capito che volevano chiudere Harnes e che tutta la creazione sarebbe stata spostata all’estero. L’ultimo direttore prima della chiusura è stato il sig. Lelier, che stava negli uffici di Parigi e che era andato via insieme a Yvon Gérard. Quando mi hanno chiamata per un problema di sviluppo taglie delle maniche, ho capito subito.
Che anno era?
Hanno chiuso nel 1999. Il sig. Nemarcq mi ha chiamata insieme a tre operaie e sono andata a lavorare per due anni da Vestra a Caudry. Ci riunivamo a Bischwiller, in Alsazia. Facevamo prêt-à-porter, abbigliamento da sport e tempo libero e tute sportive per Vestra. La produzione era in Tunisia.
A partire dal 1999 non si è prodotto più niente a Harnes? Nemmeno le collezioni?
K-way continua, ma con gli italiani, non da noi. Oggi, sono sempre italiani, ma non credo sia ancora Pirelli, non lo so. Hanno rilanciato il marchio: hanno rifatto tutto, persino i negozi. Hanno dovuto riacquistare i brevetti, la baiadera ad esempio era protetta. É molto ben fatto, molto bello, mi fa piacere. Molto tempo fa, nel 1980, K-way stava per essere acquistata da Wrangler. Ma non è stato possibile perché Giscard d’Estaing si è opposto, dicendo che non c’era motivo di vendere una marca francese agli americani.
K-way in fiamme
Quando K-way ha iniziato a licenziare?
Ha sempre licenziato ma a ondate successive. Nel 1992, quando c’è stato l’incendio, ad Harnes c’era solo la creazione e lo stock di vestiti. Non c’era più la produzione. Il giorno dell’incendio, io ero a Grenoble, perché il giorno prima avevo presentato la creazione al Comitato organizzatore dei Giochi olimpici. Per fortuna avevamo anticipato di un giorno la data di consegna.
Il sito della fabbrica Duhamel dopo l’incendio, 1992.
«Tutto bruciava tranne la cassaforte che conteneva tutte le cassette di creazione.»
Archivio personale di Janine.
Quando la fabbrica è bruciata, il direttore era il signor Bennati, che aveva acquistato K-way per conto di Pirelli. Mi ha chiamata e mi ha detto: «se le cassette informatiche non sono andate distrutte, ricostruiamo.» Le nostre cassette erano conservate in cassaforte; c’erano registrati lo sviluppo taglie, i modelli e tutti i cartamodelli. Non sono state distrutte. Quando sono arrivata sul posto durante l’incendio, i pompieri mi hanno chiesto quali erano i punti strategici. Gli ho detto di innaffiare gli uffici dove c’era la cassaforte. Poiché il giorno prima mi trovavo a Grenoble, non sapevo se la cassaforte era stata chiusa bene la sera prima. Le cassette sono state lette a Parigi e tutto era integro. Dopo l’incendio, la marca di casseforti si è fatta pubblicità e ne hanno vendute molte!
Deve essere stato un vero shock.
[Janine tiene in mano dei ritagli di giornale e alcune foto dell’incendio] Ah sì, è stato terribile. Dopo l’incendio Yves Leroux, il direttore prodotti, ci ha portato al Novotel a Hénin e ci ha detto: «forza, abbiamo un salone a Parigi tra 10 giorni.» Non avevamo più niente, nemmeno un paio di forbici, era bruciato tutto. Lì vicino c’erano dei fabbricanti che producevano prototipi per le collezioni. Con le ragazze siamo andate a cercare le forbici e altro materiale. E tra la cenere che ancora fumava, utilizzando dei rastrelli, abbiamo recuperato un tessuto in pile. Con l’aiuto dei fabbricanti, abbiamo potuto partecipare al salone. Quando il signor Duhamel è passato al salone, non ci poteva credere.
I quartieri di K-way
C’era uno spaccio aziendale a Harnes?
Sì, uno a Harnes e uno a Roubaix, e poi un altro anche a Lille. Vi vendevamo i vestiti di seconda scelta e gli invenduti. Poi la signora Moinet, sorella di Léon-Claude Duhamel, ha preso la direzione dello spaccio. Siccome restavano molte materie prime e tessuti, ha deciso di far confezionare dei vestiti diversi dalla collezione. Abbiamo lavorato con lei su piccole serie. I clienti arrivavano da tutta la regione: tutti si vestivano lì, perché la qualità era buona ma meno cara che in negozio. In seguito, il sig. Rocquet è diventato il nuovo proprietario. Il fatturato annuo era enorme e, per conseguirlo, nel weekend organizzava vendite di liquidazione. I volumi di vendita erano incredibili. Vendeva prêt-à-porter per uomo e donna. Lo stabilimento K-way è stato venduto a Visteon, ora ci sono degli ingegneri che lavorano materie plastiche per automobili.
Sulle brochure c’è scritto «K-way International Harnes». K-way faceva molta comunicazione?
Moltissima, all’inizio l’agenzia era Havas, ma ne abbiamo avute diverse. Lo sa che sono stati aperti dei negozi K-way in franchising negli Stati Uniti, a San Francisco? Abbiamo persino lavorato per la National Football League. Sono pure andata a Las Vegas per un salone. E c’era un negozio a rue de la Paix, a Parigi. Il K-way era venduto ovunque. Guardi qui, sono la filiale italiana, canadese e la K-way International.
«K-way, la marca della giacca a vento, acquistata dalla banca d’affari italiana Sopaf: una perdita di 95 milioni di franchi», dice uno dei suoi ritagli di giornale del 1993.
K-way era in declino. Quelli che ne hanno approfittato di più sono stati Aigle e poi Decathlon. Il loro metodo era di inviare qualcuno a copiare quello che facevano gli altri, i tessuti, le maglie. Sono società che non hanno la creazione, perché costa troppo cara. Aigle ha rifatto la giacca K-way. Hanno tolto il logo K-way per mettere quello loro. Avevano i tessuti e i modelli. Poi Decathlon ha sbaragliato tutti. Ora, da 4-5 anni, il marchio K-way è stato rilanciato, è di alta gamma e si vende molto bene.
È andata a Lille a vedere il negozio?
A Lille, la boutique si trova vicino a dov’era il vecchio negozio, accanto a L’Huitrière. Le vendite vanno bene perché i giovani amano le marche, più sono costose, meglio è. Ho visto un prezzo a 190 €. Mia figlia ha comprato un gilet imbottito per mio marito a 220 €. Gli articoli sono realizzati perlopiù in Francia e sono fatti molto bene. Il marchio K-way ora è italiano e gli italiani comprano molti articoli K-way. Hanno avuto successo con i negozi che hanno aperto nei bei quartieri...Prima, il K-way era popolare, tutti i bambini ne avevano uno. D’altronde è diventato un termine generico, come Frigidaire. Non si diceva prendi la giacca a vento, si diceva prendi il K-way. All’epoca, non era caro ed era accessibile a tutti. Quando abbiamo utilizzato il tessuto traspirante, è diventato un po’ più costoso. Ma era molto più comodo: traspirante e impermeabile, con cuciture termonastrate.Ora glielo posso dire, io vado regolarmente a Le Touquet e laggiù ne vedo molti di K-way. Le marche che vanno di moda sono Superdry e K-way, soprattutto tra i giovani, ma anche tra i meno giovani. E ora ci sono anche PJS e Jott, le marche di piumini, di tutti i colori e imbottiti. Ce li hanno tutti! Ognuno ha il suo piumino.
Quando ora vedo la rinascita della marca, mi dico che il peggio è passato...
Il problema sono tutti quei cambi alla direzione: è una brutta cosa, che rovina le aziende. Gli italiani che ci hanno acquistato non conoscevano molto il settore, Superga produceva calzature, gli stivali di gomma, mentre il proprietario principale era Pirelli, quello degli pneumatici. Mi ricordo che eravamo a Courchevel quando sono arrivati. Sapevamo che era l’ultima serata che passavamo insieme al signor Léon-Claude Duhamel e che loro sarebbero stati i nuovi proprietari. Ci è dispiaciuto molto.
Il mio Dany Boon
Dany Boon in K-way, brochure del suo spettacolo Waïka [K-way in gergo], 2006.
Archivio personale di Janine.
Ha visto lo sketch di Dany Boon?
Il mio Dany Boon! A Natale, eravamo a pranzo da mia figlia a Douai, e lei mi dice: «Mamma, ti devo far vedere una videocassetta, ti farà ridere.» E mi mostra lo sketch di Dany Boon e io mi metto a piangere. Nello sketch dice che non può girare la testa... mi sono emozionata perché sono stati gli anni che ci hanno fatto vivere: K-way, un lavoro formidabile, vicino casa. Ci sono rimasta male per la presa in giro. Poi, un giorno, ricevo una telefonata dalla signora Moinet [la figlia di Léon Duhamel], che mi dice «Janine, vorrei chiederle un favore.» Era andata al ristorante L’Écume des mers a Lille dove sapeva che andava a mangiare Dany Boon. Voleva parlargli. Allora si presenta: «sono la figlia di Léon Duhamel e mio fratello, Léon-Claude Duhamel è l’inventore del K-way. Signor Boon, per fare il suo sketch, non ha nemmeno indossato la vera giacca a vento K-way.» (Risate). E lui risponde: «Ma non sono riuscito a trovarla!» Lei si arrabbia e gli promette che gliene troverà una. «Janine, dove possiamo trovare oggi delle vere giacche a vento K-way?» Ho chiamato Thierry Duverdier che a sua volta ha telefonato a un rappresentante che lavorava con noi in azienda e sono venuti a portarmi due autentiche giacche a vento. La signora Moinet le ha consegnate di persona a Dany Boon a Parigi, durante il suo tour promozionale. Le ha detto che avrebbe inserito nel suo book la foto del signor Duhamel. E, in effetti, sulla brochure del suo spettacolo che ho conservato c’è scritto: «Léon-Claude Duhamel, inventore della giacca a vento nel 1964, in un tessuto belga impermeabile.»
Dall’incendio, lei incarna gli archivi di K-way?
Li ho cercati per lei, non mi ricordavo più dove li avevo sistemati. ●