Ministero dell’industria leggera e stiljaghy

La moda sovietica degli anni Cinquanta-Sessanta, tra norme socialiste e gusto occidentale

DOI : 10.54390/modespratiques.983

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Ministère de l’industrie légère et stilyagui

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© Bahia Alecki

Manuel Charpy : In che modo è arrivata a lavorare sulla moda e i vestiti?

Larissa Zakharova : Ho incominciato a lavorare sulla vita quotidiana in Unione Sovietica e in particolare sulla distribuzione degli alloggi a Pietrogrado durante la guerra civile a partire da un micro-studio su un palazzo del centro città, in cui i proprietari e gli inquilini di prima della Rivoluzione erano stipati in alcune stanzette dei loro appartamenti, mentre le altre stanze erano state distribuite agli operai che venivano da quartieri periferici. È stato così che sono apparsi gli appartamenti comunitari. Ho avuto voglia di continuare a lavorare sulla vita quotidiana in un regime autoritario, per vedere in che modo si articolavano. Ho allora sfogliato delle riviste appartenenti al quotidiano, in particolare delle riviste femminili e domestiche, come Rabotnica (La Lavoratrice) e le riviste di moda. Mi ha colpito in particolare lo sfasamento del discorso – dei testi e delle immagini – di queste riviste su ciò che è accettabile per la società sovietica e l’immagine – il cliché – che avevamo dell’URSS, cioè di una economia di penuria. Di colpo il mio soggetto faceva sorridere: di quale moda si può parlare in una società di penuria? Volevo capire questa apparente contraddizione. Sono andata a consultare gli archivi degli organismi di Stato incaricati della produzione di ciò che veniva chiamato in modo esplicito «la moda sovietica». Visto che il termine esisteva, aveva dunque un senso riflettere sulla questione.

Aveva ricordi personali, non di quella epoca ma di ciò che nel suo quotidiano le trasmettevano gli oggetti, le testimonianze, le pratiche?

Sono figlia dell’Unione Sovietica, di un paese che non esiste più. E proprio per questo mi ricordo di certe pratiche quotidiane della mia infanzia. Mia nonna cuciva degli abiti per tutta la famiglia, e noi scherzavamo dicendo che aveva il «suo» stile, identificabile in particolare nei fiocchetti che metteva dappertutto. Aveva seguito dei corsi di «taglio e cucito» che venivano impartiti a chi voleva imparare a cucire. Aveva una macchina da cucire, e dato che era andata in pensione molto presto per occuparsi di me, poiché mia madre continuava i suoi studi, produceva molto. Sono cresciuta guardando lei che cuciva. Inoltre, avevamo dei prodotti specifici che avevano uno statuto emblematico nella nostra quotidianità. Quando ero bambina esistevano dei vestiti prodotti da una società sino-sovietica, che si chiamava «Amicizia». Erano vestiti bellissimi, con molti nastri e volant, e mia nonna non era in grado di riprodurli. Esistevano quindi dei vestiti per il quotidiano, fatti in casa, e poi quelli per le grandi occasioni che tutte le bambine sognavano.

Il quotidiano è una prospettiva che è servita a rileggere la storia dei regimi comunisti. Era questo il suo progetto?

In Russia, la storia del quotidiano che scrivevamo era abbastanza statica, una specie di descrizione della cultura materiale, nello stile di Fernand Braudel. È un metodo che è stato introdotto dagli storici dell’Occidente medievale e dell’epoca moderna. Ma negli anni Novanta, gli studi sul quotidiano erano molto diversi a seconda dei paesi. Negli Stati Uniti, il quotidiano era un modo di non guardare più il regime sovietico dall’alto, come onnipresente e in grado di controllare la società nel suo insieme, ma di vedere anche in che modo la società partecipava a mantenere il regime, come era implicata nel potere nella vita quotidiana – penso in particolare agli studi di Sheila Fitzpatrick1, di Moshe Lewin2. Ci si interessava contemporaneamente al sostegno al regime – considerato innanzi tutto «interessato» – e alle strategie di resistenza e sopravvivenza. A partire in particolare dagli studi di Michel De Certeau e di Norbert Elias, si cercava di capire in che modo gli individui ordinari e le autorità avessero trasformato il quotidiano. Con un terzo approccio, in Europa, si osservava la capacità di sbrogliarsela, come aveva fatto Sandrine Kott a proposito della RDT, a partire dal concetto di dono e contro-dono di Marcel Mauss, e si cercava di capire come facevano gli individui nei regimi socialisti a far fronte alla penuria di prodotti e servizi. Ho cercato di combinare questi tre approcci. Bisogna aggiungere che gli studi di Alf Lüdtke3 sono diventati un punto di riferimento. Dopo di lui si è cercato di non separare più la sfera politica ed economica dal mondo delle pratiche quotidiane e ordinarie e di concepire il quotidiano come uno spazio di interazione tra le direttive che vengono dall’alto e le risposte delle società, che possono a loro volta influenzare le iniziative del potere. Questo è il paradigma che mi ha guidata. D’altronde, quando oggi rileggo il mio studio, mi dico che la mia impostazione era troppo quella di un ricercatore onnisciente, che vede tutto dall’alto e che sa meglio degli attori quello che fanno. Oggi lascio più libertà agli attori e al loro discorso. Per esempio, scrivevo che i creatori parlavano di «moda sovietica» ma che in realtà era soltanto una figura retorica, perché in pratica si limitavano a copiare la moda francese… Oggi non adotterei più questo sguardo accusatore.

La moda e l’abbigliamento sono elementi politici per educare il corpo e riformare le identità anche prima dell’avvento dell’URSS, fin dal regno di Pietro Il Grande

Con Pietro Il Grande, ai primi del XVIII secolo, l’obiettivo era occidentalizzare la Russia e i vestiti erano uno degli strumenti di questo cambiamento. Le storie più note riguardano i boiardi [Aristocratici ortodossi dell’Europa dell’Est] che erano costretti a radersi la barba, mentre le donne, d’abitudine confinate nella sfera domestica, venivano costrette ad uscire negli spazi pubblici, a frequentare i salotti, e persino a denudarsi le spalle e a portare delle acconciature all’europea. È un caso manifesto di intervento diretto di uno Stato autoritario nel quotidiano, che ha sconvolto completamente le pratiche e le norma di presentazione di sé nello spazio pubblico. Non penso che i Bolscevichi possano essere paragonati a queste esperienze, che d’altronde sono state continuate dai loro successori, anche se ci sono dei regolari ritorni al passato, a tradizioni come il regime di Nicola I [Imperatore dal 1825 al 1855] che promuove il costume tradizionale – reinventato – con dei kokošniki, dei tipi di copricapi ornamentali che le donne portavano anche in pubblico. I Bolscevichi erano meno radicali, perché fin dall’inizio si erano affidati a degli esperti. Lounatcharski, commissario del Popolo per la Pubblica Istruzione, teneva per esempio un discorso molto chiaro su quel che doveva essere la cultura, anche quella del quotidiano, ma non aveva mai imposto un tipo di stile o un abito. Di questi problemi si occupavano dei professionisti, che naturalmente dovevano essere fedeli al regime. Il Partito Comunista, sia con Lenin che in seguito con Stalin, non ha mai deciso che cosa si potesse indossare, e cosa no. L’idea di una normalizzazione dall’alto sembra dunque caricaturale: esistevano sempre dei corpi intermedi – nella fattispecie dei creatori di moda – e che godevano di una certa libertà di creazione, all’interno di un ambito ideologico col quale interagivano, adattandolo e anche modificandolo.

Quale è stato il ruolo della Kul’turnost’ nella definizione della «moda sovietica»?

È una campagna che è incominciata sotto Stalin alla metà degli anni Trenta, quando fu annunciato che il socialismo si era compiuto nelle sue grandi linee in Unione Sovietica, quando Stalin ha lanciato lo slogan celebre: «La vita è diventata migliore, è diventata più allegra» (Žit stalo lušee, žit stalo veselee). A partire da qui, la sfera del consumo era stata legittimata e anche l’uomo sovietico fu considerato un consumatore. È una rottura, poiché dopo la Rivoluzione e durante il comunismo di guerra esistevano sì degli uffici di sperimentazione costruttivista, ma il loro impatto sulla produzione era infimo, in epoca di razionamento. Con la NEP [Nuova Politica Economica, un ritorno parziale all’economia di mercato tra il 1921 e il 1927 in URSS], coesistevano un discorso sui pericoli della moda e del suo spirito borghese e filisteo, e la vendita di riviste di moda, sovietiche ma anche francesi. La questione della norma in materia di moda era dunque molto vaga. Con la fine della NEP, assistiamo a un ritorno all’ascetismo; il temine «moda» era bandito. Le riviste di moda hanno cambiato testata, diventando «l’arte di vestirsi» ed esaltavano la razionalità degli abiti, tanto più che all’epoca si assiste al ritorno delle tessere di razionamento. Che però sono state abolite nel gennaio del 1935. Comincia allora la kul’turnost’ – si tratta di «civilizzare» l’insieme delle pratiche quotidiane, dei modi di fare, di stare al mondo, della presentazione di sé. Il termine ku’ltura deve qui essere inteso come il termine tedesco kultur. L’idea era che l’ascensione sociale – il contadino nella poltrona del direttore – doveva essere accompagnato dall’educazione ad una nuova cultura quotidiana.

Vestiti da lavoro.

Vestiti da lavoro.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS, dal GUM (Glavnyj Universalnyj Magazin [Magazzino universale principale]) et della Cecoslovacchia.

Jurnal mod, 1957, n° 2, pag. 8.

Le istituzioni incaricate della definizione della «moda sovietica» – le Case dei modelli di abbigliamento – nascono in questa epoca?

La prima Casa di modelli di abbigliamento (Dom modelei odeždy) ha aperto proprio allora a Mosca – essa è diventata in seguito il centro di creazione dell’abbigliamento nazionale. La seconda ondata di istituzionalizzazione del sistema data dal 1944: fin da prima della vittoria, si è incominciato a riflettere sul modo di ricompensare lo sforzo fornito dai Sovietici durante la guerra. Era tanto più necessario in quanto moltissimi Sovietici, fossero essi degli Ostarbeiter4 o dei militari che avevano varcato le frontiere, avevano visto coi propri occhi il mondo degli oggetti quotidiani dell’Europa occidentale. Avevano potuto misurare la distanza tra le immagini della propaganda e la realtà. Queste riforme iniziate per migliorare il quotidiano sono state accompagnate dall’apertura di nuove Case di modelli in diverse città, filiali di una casa madre centrale a Mosca. Ogni anno la «moda sovietica» era così dettata in modo centralizzato, dal centro verso le case regionali, che dovevano conformarsi ad esso. Le riunioni alla Casa centrale di Mosca erano annue o biennali e pubblicava generalmente due volte l’anno – con la stessa frequenza delle collezioni della moda occidentale – degli album di modelli.

Vestito accessoriato e abito eleganto da uomo.

Vestito accessoriato e abito eleganto da uomo.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS. 

Jurnal mod, 1957, n° 4, pag. 14.

Come funzionavano queste Case di modelli?

Ogni casa aveva i suoi propri creatori e dei tecnici che si occupavano di tradurre i disegni in disegni tecnici – o cartamodelli – per la produzione. I creatori avevano dei compiti specifici da svolgere, definiti dal piano quinquennale. Dopo la morte di Stalin, i piani quinquennali precisavano in modo particolare che dovevano fornire ai Sovietici dei «bei» vestiti e di «migliore qualità». Queste direttive erano dunque molto generali, stava poi ai creatori interpretarle. In pratica, hanno tradotto questa domanda cercando di diversificare l’offerta. Ma la grande varietà di modelli creati da questi stilisti passava poi davanti al consiglio artistico (Bolšoj Koudožestvennyi sovet) che si riuniva in ogni Casa di modelli. Riuniva il personale delle Case di modelli, i rappresentanti dei diversi organismi implicati nella produzione degli abiti – essenzialmente i rappresentanti delle fabbriche tessili e di confezione e i rappresentanti del sistema di distribuzione –, dei rappresentanti del partito, del quartiere o della città, e infine degli artisti e critici d’arte, invitati a dare il loro parere. Questo Gran Consiglio Artistico deliberava su ogni modello accettato per la produzione industriale, accettato per gli atelier di sartoria su misura, o totalmente respinto. La normalizzazione estetica veniva fabbricata qui. In questo Gran Consiglio Artistico i conflitti tra creatori e produttori erano permanenti. I creatori pensavano di sapere quel che era bello; gli industriali si concentravano sulla qualità e il rispetto del piano. Accettare nuovi modelli rallentava la produzione, quindi frenavano il rinnovo dei modelli. I rappresentanti del sistema di distribuzione erano anche conservatori. Incaricati di seguire la domanda dei consumatori, prendevano nota dei prodotti di maggior successo. Questa ingiunzione risale agli anni Trenta, ma è a partire dagli anni Cinquanta, con lo sviluppo dell’industria leggera, che i distributori assumono un’influenza sulle fabbriche di confezione. Anche loro ostacolavano le idee nuove dei creatori, chiedendo dei «modelli di transizione», cioè dei modelli che avevano già funzionato un po’ trasformati.

Diverse norme sono in atto. La prima è estetica: come era definita la «moda sovietica»?

Se i progetti dei costruttivisti sono stati rapidamente abbandonati, il concetto di arte industriale (proziskusstvo) che voleva che l’arte scendesse nella strada, e che l’estetica fosse diffusa nel quotidiano dall’industria, è rimasto attuale. È Nadežda Lamanova a definire fin dal 1919 ciò che doveva essere l’abito sovietico, sulla base di un’impostazione funzionale e razionale. Doveva essere adatto alle circostanze e alla morfologia di chi lo indossava, non si trattava di creare un’uniforme ma un abito personalizzato. Sono anche state sviluppate una serie di teorie generali sulle materie e i colori: quali colori si accordano tra loro, quali materie e colori possono essere indossati in estate o in inverno… Questa logica poteva essere spinta molto in là: per decidere per esempio che i sandali non vanno portati coi calzini… Alla fine si tratta di una serie di regole che definivano il «buon gusto sovietico». Tali norme, riprese dalle Case di modelli, sono rimaste fisse fino al crollo dell’Unione Sovietica.

Vestiti da sera.

Vestiti da sera.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS.

Jurnal mod, 1957, n° 3, pag. 23.

Si può parlare di norme sociali, in altre parole, in una società che si pretende «senza classi», si definiscono dei modelli per ogni categoria sociale?

I creatori delle Case di moda hanno dato vita a un sistema di categorie che voleva coprire tutti gli aspetti del quotidiano, dal lavoro fino allo spazio privato. Questo sistema non era basato dunque su categorie socio-professionali, bensì sulle attività. Il progetto era di avere un abito funzionale, adatto ad ogni uso, ad ogni circostanza. Si creavano così dei «vestiti da lavoro» ma non da «operai» o «operaie» – la categoria poteva comprendere altrettanto bene sia i tailleur femminili che i camici. Le categorie poi comportavano decine di sottocategorie. Le attività del tempo libero erano anch’esse identificate: gli abiti da sera, per lo sport, per le vacanze, per la campagna, la dacia…Ogni volta il guardaroba veniva dettagliato. Il progetto era di considerare insieme sia i vestiti dei momenti eccezionali che quelli della vita ordinaria, ovverosia sopprimere la cesura osservata da Barthes attraverso le riviste tra vestiti aristocratici e mondani, e vestiti domestici, identificati dalle attività ad essi collegate. La «moda sovietica» definita dalle Case di modelli comprendeva tanto gli abiti da cocktail che i vestiti da lavoro: nessun settore della vita quotidiana doveva sfuggire alle loro prescrizioni. Si è arrivati a definire come ci si doveva vestire per fare i lavori domestici in casa: degli abiti funzionali ma non fuori moda…

Copertina della rivista Modeli sezona, 1959.

Copertina della rivista Modeli sezona, 1959.

Pubblicita dall’Istituto dell’assortimento dei prodotti dell’industria leggera e della cultura dell’abbigliamento dell’URSS, n° 1, primavera-estate 1959.

Al tempo stesso i creatori delle Case di modelli sono molto attenti alla moda occidentale per creare una «moda sovietica»…

Queste norme funzionali non bastavano per creare una «moda sovietica», uno «stile sovietico». I creatori, soprattutto negli anni Cinquanta, si ispiravano alla moda occidentale, tanto più che avevano ricevuto ingiunzione dal partito di guardare cosa succedesse altrove, per copiare quel che poteva essere utile all’URSS. Concretamente, questi creatori guardavano a Parigi, che era per loro la capitale della moda – la stessa Nadežda Lamanova aveva lavorato a Parigi con Poiret. Tra le grandi case parigine Dior era diventato la casa di riferimento, tanto più che era interessato agli scambi con il mercato sovietico. I creatori inviati in missione in Francia prendevano gran quantità di spunti da Dior, pur dicendo che creavano una moda sovietica specifica. È difficile non pensare che si tratti di un discorso ipocrita, poiché da un lato, nei rapporti interni, non vi è nessuna critica della moda «borghese», al contrario si invitano i creatori a ispirarsi a Dior, a comprare dei modelli ecc. affinché la donna sovietica sia «la più bella del mondo». D’altro canto, nelle riviste di moda, la moda occidentale, perché borghese, estrema e non egualitaria, è condannata. I creatori delle Case di modelli appartenevano a due mondi, al tempo stesso alla comunità internazionale dei creatori dalla quale si aspettavano riconoscimento, ma erano anche impiegati dello Stato e dovevano fare i conti con le ingiunzioni della competizione nell’ambito della Guerra fredda…

Nell’URSS si ha l’immagine di un corpo liberato, in particolare quello femminile. Lei però scrive che le «norme di decenza» erano anch’esse un soggetto della Casa di modelli

L’immagine del corpo femminile liberato viene piuttosto dall’inizio degli anni Trenta, in particolare con le parate sportive dove si vedono le ragazze con dei costumi attillati, e pantaloncini corti… Paradossalmente, il «grande ritiro »5 e la campagna di Kul’turnost’ sono stati anche un ritorno alle norme della decenza piccolo borghese : ci si è messi a definire la giusta lunghezza delle gonne, la buona ampiezza delle scollature, l’altezza giusta dei tacchi, nonché le pettinature. Quando ero piccola era ancora proibito andare a scuola coi capelli sciolti. Ci voleva almeno una coda di cavallo, ancora meglio delle trecce, altrimenti venivamo considerate delle ragazze depravate, indecenti… I creatori nelle Case dei modelli cercavano di fare cambiare queste norme, ma gli altri membri dei consigli, più conservatori, rifiutavano molto spesso di transigere. Quando si leggono i resoconti stenografici delle riunioni nelle Case dei modelli – in questo l’URSS era eccezionale, la burocrazia ha prodotto delle montagne d’archivi… –, si possono trovare dibattiti sulla giusta lunghezza delle gonne, la giusta larghezza dei pantaloni. Si condannano per esempio i pantaloni troppo attillati degli stiljaghy. In questo ambito, i creatori funzionano spesso come mediatori: sono loro che a poco a poco riescono a far accettare ai consumatori delle novità.

Esempi di abbigliamenti di buon gusto.

Esempi di abbigliamenti di buon gusto.

Odežda i byt, 1961, n° 1, pag. 12-13.

Qual’era il posto riservato ai consumatori ?

Le riviste-sfilate del Gran Consiglio Artistico sono state aperte al pubblico, a seconda dei periodi. Per esempio, la Casa di modelli di Leningrado era all’inizio molto aperta e ogni modello veniva commentato in pubblico, e dal pubblico. Ma rapidamente le dissonanze diventano troppo visibili, l’accesso al pubblico viene chiuso. D’altronde, nei negozi si raccoglievano le reazioni dei consumatori, nell’ambito del monitoraggio della domanda dei consumatori. Negli archivi, i rapporti dei negozi indicano le reazioni dei consumatori. Gli esperti delle merci (tovarovedy) erano obbligati a tenere dei diari di controllo dove annotavano tutte le osservazioni, domande, reclami… dei consumatori.

Che ruolo svolge la standardizzazione industriale nella definizione normativa della «moda sovietica»?

Non ho consultato gli archivi delle fabbriche, ma i resoconti stenografici delle Case di modelli danno un’idea dell’industrializzazione: la produzione di uno stesso modello raggiungeva da 10 a 12.000 esemplari. Anche se spesso si trattava di un modo di rispettare il piano quinquennale, e se alcuni modelli non trovavano poi acquirenti nei negozi, eravamo in un momento di sviluppo dell’industria leggera, e di una ricerca di maggior flessibilità nella produzione. Fu così che si aprirono delle piccole fabbriche vicino ai negozi, in modo che la produzione si adattasse alla domanda reale. Si parlava allora di «piccole serie» – circa 500-1.000 esemplari – e si chiamavano questi negozi «boutique di marca» (firmennyj magazin), come sul mercato occidentale.

In questa logica di pianificazione della moda, qual è il ruolo degli economisti?

La questione normativa si poneva anche dal punto di vista degli economisti che cercano di definire ciò che dovrebbe essere, in termini quantitativi e di rinnovo degli oggetti, il consumo sovietico. Una corrente difendeva i fenomeni di moda e quindi il fatto che il ritmo d’acquisto potesse essere più rapido del ritmo d’usura. Un’altra parte degli economisti, lavorando sui budget, sottolineava che la parte degli abiti non cresceva all’infinito bensì raggiungeva una soglia: diventava un punto di riferimento per il consumo sovietico tradotto in formule. Queste formule si traducevano molto concretamente in numero di camicie, di cappotti, di calzini… Soltanto l’usura doveva decidere del rinnovo del guardaroba – non era ragionevole distruggere un oggetto utile che condensava del lavoro. Si trattava di proiezioni per un futuro lontano; nel presente, la produzione era definita dalle materie prime disponibili e dalle reti di distribuzione, più che da queste formule.

Questo approccio scientifico alla moda si ritrova anche nel modo di definire le norme delle taglie.

Effettivamente si conduceva una riflessione scientifica sulla produzione della moda. Degli istituti di ricerca, dipendenti dal Ministero dell’Industria Leggera, si occupavano della resistenza dei tessuti e delle tinture. La questione del benessere materiale dei sovietici era presa molto sul serio e trattata attraverso il prisma tecnico e scientifico, anche per le taglie. Nella continuità delle indagini etnografiche dei primi del XX secolo, degli specialisti visitavano dei popoli in tutti gli angoli dell’URSS per raccogliere delle misure antropologiche. In questo immenso territorio le diversità fisiche erano notevoli. Si cercava di produrre degli abiti che corrispondessero alle diversità morfologiche, e gli istituti distribuivano degli schemi di taglie destinati alle Case dei modelli e alle fabbriche. Si definivano degli standard di taglie, ma contemporaneamente c’erano variazioni assai numerose: si trovavano modelli per «giovani donne», per «donne obese»… Naturalmente c’erano degli errori: i campioni delle popolazioni non sempre erano rappresentativi e le fabbriche inoltre baravano. Dato che avevano l’obbligo di produrre un numero minimo di abiti, e che contemporaneamente il loro consumo di tessuti era limitato, preferivano produrre abiti di taglie piccole. I consumatori con grandi taglie da me intervistati mi hanno espresso la loro difficoltà ad abbigliarsi in negozi di prêt-à-porter.

Vendite a parte, i modelli delle Case erano diffusi nella società?

I negozi avevano un ruolo. Ogni Casa di modelli aveva la sua pubblicazione, i creatori chiamati artisti-modellisti» erano anche giornalisti di moda. Se le riviste erano indipendenti dalle Case di modelli erano però dipendenti dal Ministero dell’industria leggera… All’epoca erano gli stessi creatori che scrivevano anche su Rabotnica, Journal mod, Modeli sezona (La Lavoratrice, Rivista di moda, Modelli di stagione)… Lo spazio della moda era molto omogeneo. Non c’era spazio per il regionalismo, tutto era centralizzato a Mosca. Le sole variazioni riguardavano le regioni – segnatamente autonome – alcuni motivi folcloristici, poiché l’arte sovietica doveva essere «socialista per il contenuto ma nazionale per la forma». In pratica, questi folclori erano utilizzati soprattutto per le mostre all’estero, che esaltavano la diversità etnica dell’URSS con un motivo uzbeko, un copricapo lettone… Ma i consumatori non ricercavano questi abiti; li indossavano persone che si cucivano da sole i propri abiti, senza riferimento alle proposte dei creatori… Esistevano anche delle sfilate pubbliche aperte ai consumatori che potevano alla fine andarsene con dei cartamodelli per fare a casa o ordinare in sartoria quello che avevano visto. Anche sul luogo di lavoro erano organizzate delle sfilate specifiche, dove i lavoratori dovevano esprimere il loro parere sui modelli presentati, la decenza, lo stile, ecc. Ma il pubblico si chiedeva soprattutto dove trovare questi abiti. Si tenevano sfilate anche nelle fabbriche o negli uffici, durante la pausa pranzo, e gli operai avrebbero dovuto imparare cos’era l’uomo moderno sovietico.

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© Bahia Alecki

In questo sistema di norme centralizzate, le trasgressioni sono molteplici. Prima di parlare degli stilyaghy, quali erano le trasgressioni più ordinarie, dato che la produzione domestica riguarda la metà dei consumatori di abiti?

È molto difficile cogliere le trasgressioni estetiche domestiche e ordinarie attraverso gli archivi amministrativi… Le indagini di bilancio distinguono tra i prodotti comprati nei negozi di stato, le spese per i laboratori di sartoria su misura, e i prodotti comprati ai privati – cosa che in teoria era proibita dalla legge – ma non si vede la dimensione qualitativa delle produzioni. I rari commenti degli statistici vertono sul mercato nero, che alleviava le difficoltà del sistema di distribuzione. Ad esempio, notano che c’erano dei privati che vendevano delle scarpe da Leningrado a Tbilisi. Per capire le trasgressioni ci vogliono altre fonti, delle immagini o interviste.Con qualche intervista – sedici – ho cercato di capire le correlazioni tra i livelli di reddito e le tattiche di consumo: perché alcuni preferivano andare in un negozio di Stato, altri presso i privati, altri ancora si cucivano gli abiti da soli, altri infine ordinavano gli abiti a delle sarte clandestine, ecc. Il fattore economico era importante – gli atelier di sartoria su misura erano più cari, quelli clandestini intermedi, e l’autoproduzione poco cara. Ma grazie alle interviste – e a mia nonna – ho capito che era possibile cucire in casa ed essere appassionati di moda. In altre parole, esistevano dei consumatori attenti alla moda in tutte le forme di produzione e di consumo, grazie soprattutto ai cartamodelli delle riviste. In un certo senso i negozi sembravano quasi essere degli spazi al di fuori della moda e totalmente esenti da qualunque trasgressione. E inversamente, certe persone producevano a domicilio degli abiti trasgressivi. È questo, ad esempio, il caso di Eduard Limonov che, negli anni Settanta, cuciva a domicilio e vendeva alle donne moscovite dei pantaloni bianchi, che all’epoca era proibito indossare. Coloro che andavano dai sarti privati potevano portare dei modelli tratti da riviste occidentali importate di contrabbando o vendute dai turisti. Ma era una trasgressione limitata perché i creatori delle Case di modelli stessi si ispiravano alla moda occidentale… Per questi consumatori si trattava di essere all’unisono con la moda occidentale.

Stiljaghi.

Stiljaghi.

Caricatura che denuncia gli speculatori-rivendori di abbigliamenti di produzione straniera (in russo fartsovchtchikiфарцовщики), principali fornitori di stiljaghi. Traduzione: «Anima alla vendita. Qui ci sono stracci di diversi paesi. Alla Nuova York, alla Parigi, quelli come lui non conoscono onore, quando il guadagno è facile»

Collezione privata.

Le trasgressioni degli stiljaghy erano più manifeste e più politiche? Qual’era la natura delle loro trasgressioni?

Si è dato un senso politico alle trasgressioni degli stiljaghy [dei giovani hipster sovietici, il nome viene dalla parola stile in russo, deformata per avere una connotazione peggiorativa] e alcuni stiljaghy hanno scritto le loro memorie, in cui sottolineano la dimensione politica della loro apparenza6. Si può pensare che si tratti di una ricostruzione a posteriori. Gli inizi sembrano piuttosto apolitici e somigliano alla scoperta da parte dei «giovani» di artefatti materiali nuovi arrivati dall’Ovest – in particolare tutti gli abiti confiscati dai soldati dell’Armata Rossa. Questi oggetti sono arrivati sul mercato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mark Edele ha sottolineato che per la generazione dei bambini della guerra, era un modo per affermare la propria virilità, e di rifarsi all’eroismo militare dei loro padri7. Non si trattava dunque di vere e proprie trasgressioni, tanto più che questi bambini, figli delle élite, erano intoccabili. Ma questo cambia negli anni Cinquanta, quando una popolazione più ampia ha imitato queste pratiche, e contemporaneamente lo Stato ha cominciato a reprimerle. In un certo senso è una repressione politica – contro il «cosmopolitismo» – che ha fatto di questa moda una trasgressione politica. A partire dal momento in cui la stampa diceva che portare una cravatta americana o ascoltare jazz equivaleva a vendere la patria, queste pratiche assumevano una carica politica. È stato un articolo di Beliaev nel 1949 che ha inventato il termine stiljagy per condannarli8. Un buon numero di giovani incominciava allora a comprare sul mercato nero dei vestiti importati, e soprattutto a ordinare delle copie. Si arrangiavano: ad esempio chiedevano a un calzolaio di aggiungere una suola compensata a delle scarpe normali, comprate in un negozio di Stato, dove si compravano un pantalone normale in stile sovietico, per poi farlo restringere da un sarto anche se poi per indossarlo ci voleva del sapone… Queste non erano pratiche autentiche occidentali, ma delle modifiche arrangiate di prodotti sovietici con frammenti di moda occidentale. La diffusione di questa moda ha creato la distinzione tra gli štatniki (derivato dal termine štaty – gli Stati Uniti nello slang russo – per designare gli amatori della moda americana) che avevano i mezzi per comprare di contrabbando abiti importati, e gli altri, che copiavano e si arrangiavano.Scoprivano la moda occidentale con l’importazione di abiti, ma anche attraverso la musica – e le copertine dei dischi in vinile – e i film. Dagli anni tra le due guerre ai primi anni Cinquanta, a causa della penuria di film sovietici, ci fu una grande diffusione di film occidentali, film le cui licenze erano scadute, o addirittura film confiscati dall’Armata Rossa. Essi hanno svolto un grande ruolo per la moda. La diffusione delle radio di propaganda occidentale – che si ascoltava nelle campagne, dove non si riusciva a proibirle – ha inoltre contribuito alla diffusione della moda dei teenager.

Quali erano i profili di questi stiljaghy e di che natura è stata la loro repressione?

Erano giovani, pochissime donne – malgrado quanto mostra il film Stiljaghy di Valerij Todorovskij, realizzato nel 2008 – perché la normalizzazione pesava di più sulle donne. Tra gli uomini, se ne trovavano in tutti gli strati sociali. Accanto ai primi stiljaghy della gioventù dorata si trovavano degli studenti, operai… e c’erano degli «styliaghy convinti» e altri «ad intermittenza» che portavano dei vestiti in stile soltanto nei luoghi di socializzazione e al lavoro si rimettevano una tenuta più «conveniente». Uno dei modi di combatterli è stato l’escluderli dalla gioventù comunista e dall’Università, e a volte dare note di biasimo sul lavoro, il che poteva essere un duro colpo per la carriera. Ma globalmente la repressione era soprattutto orale. A volte, lo vediamo negli archivi giudiziari – quelli della Procuratura (che noi chiameremmo procura) dei tribunali, erano perseguiti per delitto economico, quando questa pratica di consumo era accompagnata dalla compravendita – dalla speculazione – sul mercato nero. Ma persino tale repressione era fatta di accomodamenti. Ad esempio, in occasione del Festival mondiale della gioventù, i giovani sovietici che compravano dei vestiti occidentali per strada agli studenti stranieri erano condannati. Ma se gli studenti stranieri vendevano i loro abiti in dei negozi di usato ufficiali, questo era autorizzato… Era un mezzo per mantenere il controllo – politico e economico – sul flusso di questi prodotti. La stessa cosa valeva con gli acquisti dei turisti sovietici all’estero. Le norme economiche spesso avevano la precedenza sulle norme etiche e politiche.

Qual è oggi l’eredità di queste norme dell’abbigliamento?

L’Unione Sovietica non ha avuto il maggio ‘68 e questo si sente ancora oggi. Il maggio ‘68 ha, a mio avviso, democratizzato le apparenze, tramite la stampa, ma anche mettendo in crisi numerose regole e norme sociali. Questo in URSS non è successo; le norme del «buon gusto sovietico» dominano ancora. Questo vale ad esempio nell’accostamento dei colori, una delle norme importanti del «buon gusto sovietico»: i guanti, le scarpe, la borsetta, il foulard, ecc. dovevano essere dello stesso colore. È ancora così oggi per le donne russe – da qui derivano quelle macchie colorate che passeggiano per le città… Resta anche una fiducia quasi cieca nel creatore-artista, nella sua capacità di creare degli insiemi coerenti e di buon gusto. I manager delle boutique di lusso oggi sottolineano che domina il «total look»; le donne russe comprano degli insiemi completi, a immagine esatta di ciò che ha voluto il “creatore”.Ma le norme di decenza non sono più osservate, al contrario. Se anche, per esempio, in qualche scuola si impongono delle uniformi per dei motivi sociali, l’obbligo per le ragazze oggi è piuttosto di essere vestite alla moda… La moda si costruisce oggi contro le norme di decenza sovietica e assistiamo ad una erotizzazione folgorante delle apparenze dopo la scomparsa dell’URSS.

1 Sheila Fitzpatrick, Everyday Stalinism: Ordinary Life in Extraordinary Times: Soviet Russia in the 1930s, Oxford University Press, 1999.

2 Moshe Lewin, La Formation du système soviétique. Essais sur l’histoire sociale de la Russie dans l’entre-deux-guerres, Parigi: Gallimard, 1987.

3 Alf Lüdtke, Histoire du quotidien, Parigi: Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1994 [1989].

4 Lavoratori dell’Est, i Sovietici deportati in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale per effettuare dei lavori nell’industria e presso i

5 Nicholas Timasheff, The Great Retreat, the Growth and Decline of Communism in Russia, New York: E. P. Dutton & Co. Inc., 1946.

6 Si veda, ad esempio, Alexei Kozlov, «Kozel na sakse i tak vsiu žizn», Mosca: Vagrius, 1998.

7 Mark Edele, ‘’Strange Young Man in Stalin’s Moscow: the Birth and Life of the Stiliagi, 1945-1953’’, Jahrbücher für Geschichte Osteuropas, n° 50

8 Dmitri Beliaev, «Stiljaga», Krokodil, n° 7, 10 marzo 1949, pag. 10.

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Notes

1 Sheila Fitzpatrick, Everyday Stalinism: Ordinary Life in Extraordinary Times: Soviet Russia in the 1930s, Oxford University Press, 1999.

2 Moshe Lewin, La Formation du système soviétique. Essais sur l’histoire sociale de la Russie dans l’entre-deux-guerres, Parigi: Gallimard, 1987.

3 Alf Lüdtke, Histoire du quotidien, Parigi: Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1994 [1989].

4 Lavoratori dell’Est, i Sovietici deportati in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale per effettuare dei lavori nell’industria e presso i privati.

5 Nicholas Timasheff, The Great Retreat, the Growth and Decline of Communism in Russia, New York: E. P. Dutton & Co. Inc., 1946.

6 Si veda, ad esempio, Alexei Kozlov, «Kozel na sakse i tak vsiu žizn», Mosca: Vagrius, 1998.

7 Mark Edele, ‘’Strange Young Man in Stalin’s Moscow: the Birth and Life of the Stiliagi, 1945-1953’’, Jahrbücher für Geschichte Osteuropas, n° 50, 2002 (1), pag. 37-61.

8 Dmitri Beliaev, «Stiljaga», Krokodil, n° 7, 10 marzo 1949, pag. 10.

Illustrations

s.t.

s.t.

© Bahia Alecki

Vestiti da lavoro.

Vestiti da lavoro.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS, dal GUM (Glavnyj Universalnyj Magazin [Magazzino universale principale]) et della Cecoslovacchia.

Jurnal mod, 1957, n° 2, pag. 8.

Vestito accessoriato e abito eleganto da uomo.

Vestito accessoriato e abito eleganto da uomo.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS. 

Jurnal mod, 1957, n° 4, pag. 14.

Vestiti da sera.

Vestiti da sera.

Creati dai artisti della Casa di Modelli dell’URSS.

Jurnal mod, 1957, n° 3, pag. 23.

Copertina della rivista Modeli sezona, 1959.

Copertina della rivista Modeli sezona, 1959.

Pubblicita dall’Istituto dell’assortimento dei prodotti dell’industria leggera e della cultura dell’abbigliamento dell’URSS, n° 1, primavera-estate 1959.

Esempi di abbigliamenti di buon gusto.

Esempi di abbigliamenti di buon gusto.

Odežda i byt, 1961, n° 1, pag. 12-13.

s.t.

s.t.

© Bahia Alecki

Stiljaghi.

Stiljaghi.

Caricatura che denuncia gli speculatori-rivendori di abbigliamenti di produzione straniera (in russo fartsovchtchikiфарцовщики), principali fornitori di stiljaghi. Traduzione: «Anima alla vendita. Qui ci sono stracci di diversi paesi. Alla Nuova York, alla Parigi, quelli come lui non conoscono onore, quando il guadagno è facile»

Collezione privata.

References

Electronic reference

Larissa Zakharova and Manuel Charpy, « Ministero dell’industria leggera e stiljaghy », Modes pratiques [Online],  | 2020, Online since 14 February 2025, connection on 21 April 2025. URL : https://devisu.inha.fr/modespratiques/983

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Larissa Zakharova

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Manuel Charpy

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Laura Massarelli

Silvia Vacirca

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