Dove si vede che i costumi per fanciulle non sono da prendere alla leggera. Nel tribunale civile della Senna, si svolse, nel 1859, un duello che avrebbe potuto essere un semplice scontro tra una sarta e la sua cliente: una storia di cliente moroso, insomma. Se non ci si fossero messi in mezzo gli avvocati, che fecero di questo processo un conflitto di norme un po’ particolare.
s.t.
© Pablo Grand Mourcel
A volte basta un semplice nome per suscitare il sogno di una storia da scrivere. Così fu per quello di Gaspard Chaix d’Est-Ange, incontrato per caso durante une ricerca sui balli in maschera e in costume del XIX secolo. Chaix d’Est-Ange era stato nel 1857, avvocato di Flaubert e di Baudelaire per il clamoroso processo di Madame Bovary e dei Fiori del Male; tuttavia, sul catalogo della biblioteca nazionale di Francia, si trovava stranamente associato ad una sarta sconosciuta, Delphine Baron, in una causa che la opponeva alla baronessa di Korf, difesa dall’avvocato Léon Duval, il 6 aprile 1859, presso il Tribunale civile della Senna. Ne La Tribuna Giudiziaria, raccolta delle arringhe e delle requisitorie più notevoli dei Tribunali francesi e stranieri1, che ha pubblicato le arringhe dei due avvocati, si allacciava così un piccante incontro tra il mondo della sartoria parigina, una baronessa russa, ed uno dei più celebri avvocati dell’epoca. La causa, del resto poteva sembrare esser soltanto una semplice «questione di stracci» (Le Journal du Loiret, 11 e 12 aprile 1857): la baronessa si rifiutava di pagare i costumi da fioraia in stile Luigi XV che aveva ordinato per le sue figlie, per il ballo del conte di Morny del 13 marzo 1859, col pretesto che sarebbero stati «immodesti»2 e consegnati troppo tardi; inoltre reclamava 3000 franchi di risarcimento danni. La sarta dal canto suo esigeva il pagamento dei costumi forniti. Lo scontro tra i due litiganti, gli argomenti invocati da ambo le parti, il contesto, nonché l’eco immediata del caso, tutto insomma contribuisce a non poter limitarsi alla formula sbrigativa e sarcastica del Journal du Loiret. Indagare, cercare di dipanare il filo di questo processo, equivale infatti ad esplorare il campo di una storia più profonda di quanto non sembri, che cristallizza un’aspra competizione di norme, in cui il tempo della festa in maschera non è mai estraneo alle pulsazioni del mondo.
«Ma com’era bello il processo della baronessa di Korf contro la Signora Delphine Baron»3
«Dovete sapere, Signori, che la fine del Carnevale è stata accompagnata da un vero e proprio diluvio di balli in maschera: e così il 28 febbraio c’è stato il ballo in maschera dato dal ministro di Stato; il 2 marzo ballo in maschera dal Signor conte di Morny; il 5 marzo ballo in maschera agli Affari Esteri, e da ultimo il 7 ballo in maschera dall’Imperatrice; e qui parlo solo delle feste ufficiali, senza contare tutte le riunioni private che furono numerose».
Ballo in costume (epoca Luigi XV) nei saloni del conte di Morny, il 7 marzo 1859.
Designo di Bligny, incisione di Henri Linton; pagina del giornale L'Illustration.
Collezione privata.
Biglietto di invito al ballo di Morny.
Collezione privata.
Con questa enumerazione che apre la sua arringa, Chaix d’Est-Ange sottolinea la singolarità festiva del regno di Napoleone III. In realtà anche se il Secondo Impero non inventa questo divertimento – le feste in costume e in maschera – , che si perpetua senza soste dalla Restaurazione agli Anni Folli, ne consacra però una forma specifica: i balli politici, quei balli privati ma organizzati dai circoli del potere. Durante la Restaurazione e la Monarchia di Luglio, la Duchessa di Berry o Marie-Amélie, moglie di Luigi Filippo, hanno sì organizzato dei balli in maschera, ma si trattava all’epoca soprattutto del persistere di una lunga tradizione aristocratica, peraltro poco vivace, di feste a corte; con il Secondo Impero invece, si diffondono queste feste organizzate dai ministri, i consiglieri di Stato, dagli ambasciatori, da Napoleone III stesso o dalla Imperatrice Eugenia. Esse alimentano un vertiginoso calendario mondano in tutto questo periodo, niente a che vedere con quello che è preceduto e quel che seguirà – i balli ufficiali con travestimenti scompaiono dall’arsenale festivo repubblicano, se non del tutto dai saloni. Tra i grandi orchestratori dei balli in maschera, Chaix d’Est-Ange cita Fould, ministro di Stato tra il 1852 e il 1860, Morny, presidente del Corpo Legislativo dal 1854 al 1865, e Walewski, ministro degli Affari Esteri tra il 1855 e il 1860. Va qui ugualmente evocato Persigny, durante il suo secondo ministero agli Interni tra il 1860 e il 1863, o Chasseloup-Laubat, ministro della Marina e delle Colonie dal 1860 al 1869, che, entrambi, ne furono amanti. Gli inviti a questi balli, conservati soprattutto alla Biblioteca – Museo dell’Opera di Parigi, ne sono una traccia preziosa, e ci informano tanto sui codici festivi quanto sui rapporti sociali intrecciati. La stessa cosa vale per l’invito indirizzato alla contessa d’Ornano, dal conte di Morny e sua moglie, per il ballo del mercoledì nel marzo 1859. Gli ospiti sono attesi alle dieci di sera, al domicilio dei Morny, cioè l’hotel di Lassay, e sono pregati «di venire in costume; epoca Luigi XV, con la cipria, o con un domino». Aperte ai notabili del Secondo Impero, come la contessa d’Ornano, queste feste lo sono anche alle ‘élite’ europee, come la baronessa di Korf. Ed è così che la principessa Pauline di Metternich, la contessa di Castiglione o la contessa Barbara Rimskij-Korsakov frequentano assiduamente questi balli, in cui dei costumi audaci spesso svelano il corpo assai più di quanto non lo mascherino. Il 7 febbraio 1866, esse partecipano al grande ballo organizzato da Napoleone III ed Eugenia, dove la contessa Rimskij-Korsakov compare semplicemente rivestita del costume della Salammbô di Flaubert – ovverosia appena velata.
Per quel che riguarda la baronessa di Korf, le informazioni sono, in un primo tempo, tenui. L’arringa del suo avvocato, Léon Duval, ci fornisce solo qualche riferimento: essa è una «gran dama russa», «moglie del generale barone di Korf», venuta dalla corte di Russia, di passaggio a Parigi e che alloggia all’Hotel Richmond con le sue due figlie. Essi permettono tuttavia d’aprire alcune piste. Niente di strano, innanzi tutto, in questa presenza russa a Parigi all’indomani della guerra di Crimea, che vide Alessandro II rompere con la chiusura del suo Paese imposta da suo padre Nicola I. Dopo gli esuli politici (come Turgenev arrivato nel 1832 o Bakunin arrivato nel 1844), ritornarono all’epoca molti personaggi mondani, artisti e negozianti4, e molti di loro ripresero gli usi mondani e turistici delle ‘élite’ russe, abituate a passare una parte dell’inverno a Parigi. La rive droite è il loro luogo di predilezione, vicino alla rue de Rivoli, al boulevard des Italiens e alla rue de la Paix; l’hotel Richmond, in rue du Helder, s’iscrive in questa geografia elettiva e socialmente significante. Contemporaneamente la vita e la personalità di Morny stesso concorrono a spiegare questa socievolezza comune: ambasciatore straordinario in Russia nel 1856, egli sposa, nel 1857, una principessa russa, Sofia Troubeckoj; di ritorno in Francia, la coppia moltiplica i balli e i ricevimenti in cui si incrociano notabili del Secondo Impero, artisti, aristocratici europei.
“Le moniteur de la coiffure”
«Costumi storici artistici e travestiti della Maison Moreau, Delphine Baron, successore, drapperia, gilet e nouveautés della Maison Dubois jeune, camicie, colletti e cravatte della Maison du Phénix, S. Hayen aîné, cappelleria della Maison René Pineau, tagli di capelli e acconciature di Loisel, Parfums de Violet, inventore del sapone Thridace, fornitore de Sua Maestà l’Imperatrice. Parigi, Rue des Petites Écuries, 19.»
Le Moniteur de la coiffure, for the Bulletin of Fashion, New York, volume 21, gennaio 1860 / BnF
Una testimonianza inattesa permette tuttavia di tracciare un ritratto più preciso della baronessa di Korf. Nel corso delle deambulazioni che percorrono tutta l’indagine, una parte del mistero su questa famiglia si trova in effetti svelata dalla scoperta dell’identità del suo pronipote: Vladimir Nabokov, l’autore del famoso Lolita5. Due protagonisti del caso del 1859 sono, in realtà, i nonni paterni dello scrittore: Marie, una delle figlie della baronessa per la quale Delphine Baron realizzò per l’appunto uno dei costumi incriminati, e Dimitri Nabokov (1827-1904), allora consigliere di Stato6. Quasi un secolo dopo, il loro nipotino racconta così dettagliatamente il contenzioso del 1859, «incidente abbastanza grottesco» secondo le sue parole, e fa luce su alcuni dei suoi attori. Nina Alexandrovna (1819-1895), sua nonna, è moglie d’un generale d’origine tedesca arruolato nell’esercito russo, Ferdinand Nikolaus Viktor von Korf(f) (1819-1895), dal quale ha avuto cinque figlie. La baronessa venne a passare l’inverno 1859 a Parigi con due di loro: Olga e Marie, la maggiore, nata nel 1842. Dimitri Nabokov, amico di famiglia e futuro sposo di Marie, vi si trova anch’egli. All’epoca del ballo quindi, e del suo matrimonio nel settembre dello stesso anno, Marie ha 17 anni, età che suscita la massima vigilanza materna e sociale. In un commento diretto benché allusivo, Nabokov aggiunge però che la sua «cara nonna» era «bella, appassionata e, mi spiace dirlo, assai meno austera nei suoi costumi in privato di quanto potesse sembrare visto il suo atteggiamento nei confronti degli abiti scollati»7. Viste queste affermazioni, acquista allora un senso particolare l’ironia mordente di Chaix d’Est-Ange nella sua arringa: «non riesco a spiegarmi che quel che le sembrava troppo abbottonato il giorno prima, le paresse poi troppo scollacciato l’indomani, e questo eccesso d’amore per i corsetti molto accollati, proprio quando deve pagare il conto che le presentano, […] mi sembra sospetto». Si disegna allora in filigrana una questione sulla quale ritorneremo: e se, in fondo, la posta in gioco nel caso non fosse stata solo un crimine d’immodestia? Non solo dunque il tradimento da parte della sarta dell’imperativo pudore delle due fanciulle?
“Un incontro spiacevole”, Honoré Daumier, 1843.
Uno spiacevole incontro tra un sarto e uno dei suoi cattivi pagatori: “Non mi sbaglio! Signor Alfred, può dirmi quando mi darà un acconto sul piccolo conto di novecento franchi che mi deve da tre anni? - Diavolo, prenditi l'omnibus e il sarto! Sarei stato molto meglio in una cabriolet! »
Designo di Honoré Daumier, La Comédie Humaine, apparso su Le Charivari, 3 aprile 1843 / Collezione privata.
Nello spazio confinato del tribunale civile, si erige di fronte alla baronessa di Korf una figura venuta da tutt’altro ambiente: Delphine Baron. Con lei, viene convocato questo mondo dell’ombra tanto spesso dimenticato dietro i fasti della festa imperiale: le manine che cuciono e ricamano, modellano i costumi, i bouquet e i nastri destinati ad adornare i corpi mascherati e travestiti; i laboratori di sartoria con le loro esigenze e le loro pressioni in queste città febbricitanti del ballo8. Su Delphine Baron, «subentrata da poco tempo alla celebre casa Moreau» precisa La Tribune Judiciaire, l’indagine è erratica prima di arrivare a delineare i contorni di una vita9. Pubblicità, articoli di stampa, dizionari e corrispondenze strappano molto presto Delphine Baron all’anonimato per renderle un po’ di quella notorietà che la caratterizzava sotto il Secondo Impero e all’inizio della III Repubblica, fino alla sua morte nel luglio 1895. L’Annuario degli Artisti e dell’insegnamento drammatico e musicale10 segnala in realtà il suo decesso con un necrologio laconico, che passa sotto silenzio quello che fu il suo percorso e la riduce allo statuto di «moglie di»: «Sig.ra Delphine Baron, vedova di Marc Fournier, che, dal 1851 al 1868, fu direttore del teatro della Porte-Saint-Martin». Più in generale, fu il silenzio a circondare la scomparsa della «fata del travestimento», annientando la sua passata popolarità, cancellando persino il ricordo della sua attività. Le fonti disparate che la riportano alla luce tra gli anni 1850 e 1880 purtuttavia testimoniano di una storia più ricca. Quando riprende la casa Moreau, nel 1856 o 1857, Delphine Baron rompe con una precedente carriera di attrice. Nata a Lione nel 1818, arrivata a Parigi con la sua famiglia nel 1833, era entrata al Conservatorio prima di debuttare all’Odeon nel 1844. Nel 1845, sposò l’attore di vaudeville Marc Fournier entrando al teatro della Porte-Saint-Martin nel 1846, dove divenne piuttosto celebre – abbastanza, comunque, perché lo scultore Calmels realizzasse il suo busto in gesso, e lo esponesse al Salone del 1857. La sua separazione da Marc Fournier, nel 1856, la indusse ad abbandonare la scena. Ella comprò allora manifestamente l’attività di costumi teatrali dal celebre costumista Babin, aprendo poi il suo laboratorio di sartoria11. Tale scelta, determinata dalla sua carriera d’attrice, sembra però esser dovuta anche all’eredità famigliare, poiché suo padre – ispettore del demanio e pittore – permise a Delphine e a suo fratello Alfred (scultore anch’esso prima di diventare attore) di ricevere delle formazioni artistiche. Fu così che la giovane Delphine si formò all’arte dell’incisione, professione che esercitò inizialmente, prima di lanciarsi nel teatro. Alla Porte-Saint-Martin, continuò tuttavia a disegnare – con grande talento secondo i suoi contemporanei – fornendo i modelli dei costumi che faceva in seguito eseguire, sotto la sua direzione12. Diventata proprietaria della sua Casa, si specializzò proprio nei costumi – da teatro, da ballo o d’artista – nonché nelle toilette da città, con un successo di cui testimoniano molti indizi. Fin dagli anni 1860, il suo nome ritorna così regolarmente nella stampa, nelle rubriche di moda, mondane o di teatro, associato a commenti lusinghieri sulle sue creazioni. Nel 1860, ella diviene, come abbiamo detto, la «fata del travestimento» secondo Le Moniteur de la Coiffure, che poeticizza in tal modo la formula più frequente al suo riguardo: quella di «grande sarta». Nel 1877, la sua casa è raccomandata per gli stranieri che desiderano recarsi al ballo in maschera dell’Opera di Parigi, e nel 1878, Le Monde Artiste s’infiamma sui costumi «meravigliosi» che ha fornito per una rappresentazione teatrale a Rouen13. Secondo le fonti, si delinea anche una rete di clienti che la ricollega ad artisti di richiamo: nel 1863, affitta un costume da Pierrot al figlio di Théophile Gautier14 e nel 1865, La Petite Revue l’associa a Nadar:
«Nadar passa nel salone ove il flusso dei visitatori circola a fatica attorno alle vetrine. Cento voci l’accolgono con cento richiami che si incrociano:
– Nadar, non ti scordare che ti aspettiamo alle sette per la nostra cena del martedì.
– Nadar, hai promesso a mia moglie di venire stasera al suo ballo in maschera.
– Nadar, devi assolutamente scrivere un feuilleton per il mio giornale, sull’ascensione di Amsterdam. […]
– Sì, amici miei; sì, colombelle, sarò presto da voi, tra cinque minuti, tra otto minuti, tra un quarto d’ora… Henri conta su di me per la cena. Charles, sii contento; Delphine Baron mi ha appena mandato un costume incredibile per il tuo ballo. Victor, aspettami alle cinque al caffé Riche.»15
Parallelamente il trasloco della sua Casa – che avviene tra il 1863 e il 1871 – dalla via delle Filles-Saint-Thomas all’angolo tra la via di Richelieu (n° 112) e il boulevard Montmartre (n°21) sembra indicare il prosperare della sua attività, iscritta ormai più chiaramente in questo quartiere selettivo di case di moda rinomate – prima che la haute-couture faccia della rue de la Paix e delle vie circostanti il suo cuore pulsante. Infine, e al di là del caso del 1859, Delphine Baron sorge ugualmente a più riprese nella stampa, per dei contenziosi con alcune sue clienti. Nel 1881, affronta una cantante, Marie Heilbron, che accusa di aver nuociuto alla sua reputazione, per aver evocato in una lettera i suoi costumi «sbagliati»16; nel 1886, vi è un nuovo processo contro un’attrice, Jane Granier, questa volta per ottenere il pagamento di più di 3000 franchi di pantaloni realizzati dalla sarta. L’impresario e l’attrice sono condannati a pagare il conto, mentre il giornalista, dal canto suo, vi trova un pretesto per ironizzare: «È dunque la Sig.na Granier a portare i pantaloni?»17.
Veduta stereoscopica, “Un matrimonio sotto Luigi XV”, 1859.
“Questa piccola serie di dodici stampe stereoscopiche che Furne Fils & Tournier hanno appena messo in vendita si distingue per la ricchezza e l'accuratezza dei costumi (provengono dai negozi di Delphine Baron), per l'elegante composizione dei gruppi e soprattutto per la finitura delle stampe, che può reggere il confronto con tutto ciò che la fotografia inglese ha prodotto di più compiuto e riuscito.”
La Photographie. Journal des publications légalement autorisées : faits intéressants la photographie, annonces, Parigi : Furne fils et H. Tournier, maggio 1859 / Collezione privata.
Sul suo cammino, Delphine Baron incontra dunque un buon numero di clienti morosi. La storia, in questo caso, non è nuova, e la letteratura li ha, del resto, adottati da lungo tempo come elementi inscindibili dall’attività di un sarto. Fin dal XVII secolo, Molière ha forgiato questa coppia litigiosa, con i tratti del sarto Dimanche, che cerca invano di farsi pagare da Don Giovanni, il suo cliente recalcitrante. Gli artisti del XIX secolo poi non se lo lasceranno scappare e lo ritraggono fino a farne un cliché. Sarti e clienti morosi diventano così due tipi indissociabili, immortalati dal romanzo, in particolare La Comédie Humaine di Balzac, dai fisiologi18, il teatro e la caricatura. Daumier si è fatto pittore acuto e mordente di questo binomio; «un incontro spiacevole tra un sarto e uno dei suoi clienti morosi»19, pubblicato ne Le Charivari del 3 aprile 1843, ne è l’esempio. È un cliché vecchio, ma in questa seconda metà del secolo sembra delinearsi qualcosa di nuovo: la coppia non è più soltanto oggetto di un cliché letterario e artistico, essa si invita regolarmente nelle colonne della stampa, alimenta le croniche giudiziarie e diventa, di fatto, una coppia piantagrane. In realtà i processi tra i sarti e i loro clienti si moltiplicano. Così la norma ammessa nel rapporto tra questi due mondi, così come l’arte lo dipinge – disprezzo sociale del cliente per il suo sarto, negligenza da bohemien, o reale mancanza di denaro per pagare, del cliente moroso– sembra essere ormai sempre più fermamente contestata da dei sarti che non esitano più a trascinare i loro clienti in tribunale20. Un contesto nuovo, che vede apparire dei rapporti commerciali più aspri, permette di capire questo nuovo aspetto: si fa sempre più viva la concorrenza con la nascente confezione, nonché con i primi grandi magazzini, si approfondiscono la distanza e la gerarchia tra la «haute-couture» nascente e i molteplici luoghi di produzione del su misura21. Contemporaneamente e in modo indissociabile, si afferma anche una coscienza sociale inedita delle piccole e grandi mani del mondo della sartoria. Altrettanti elementi che concorrono a trasformare il cliché in realtà giudiziaria.
«Qual è dunque l’avvenimento del giorno, e perché tanta emozione tra i ferventi discepoli della moda?»22
L’oggetto di per sé dell’«avvenimento del giorno» sembra molto semplice, come abbiamo detto. Lo scenario della causa, in compenso, è pieno di nuovi sviluppi, in cui si mescolano, in una stanza d’albergo, una decina di protagonisti: la baronessa di Korf, Nabokov, l’amico di famiglia, delle operaie di sartoria, una prima damigella d’atelier, una sarta rivale di Delphine Baron, due ufficiali giudiziari e qualche testimone, un commissario di polizia. Seguiamo per cominciare l’avvocato Léon Duval nel suo racconto degli eventi. Avendo ricevuto l’invito dei Morny in febbraio la baronessa decide di fare un’ordinazione per tre costumi, uno per lei, presso la Casa Delille, due per le sue figlie, presso Delphine Baron. Per esse desidera dei costumi da fioraia Luigi XV e fornisce alla sarta una stampa che serva da modello. Chiede che vengano consegnati alle ventuno alla vigilia del ballo. Il suo costume arriva in tempo, ma quelli delle figlie si fanno aspettare. Finalmente sono consegnati alle ventuno, la sera stessa del ballo, senza i fiori chiesti, che sono stati promessi per un quarto d’ora dopo. Ecco che allora insorge il gravame maggiore: «immodesti», senza gusto né stile, fatti di tela laddove ci si aspettava della seta, i costumi deludono e scandalizzano la baronessa. La sarta ne è immediatamente avvertita e invia, per effettuare dei ritocchi, due operaie che «invece di riparare il guaio si misero del tutto in licenza. La baronessa manda allora a chiamare la sig.na Fortunée, sarta della casa Delille, che decide implacabilmente che i costumi sono «irrecuperabili». Alle ventitré, la baronessa di Korf decide dunque di privare le figlie del ballo dal conte di Morny. L’indomani mattina, le cose si complicano quando la baronessa decide di rifiutare i costumi con un atto ufficiale. Il giorno appresso in effetti Delphine Baron invia dalla sua cliente un ufficiale giudiziario incaricato di un sequestro cautelare in attesa di un pagamento di 700 franchi. Dimitri Nabokov, allora presente, propone di pagare i 700 franchi ed esige in cambio una ricevuta; l’ufficiale giudiziario gliela rifiuta e ordina il sequestro, il tutto «senza ricorrere alla minima civiltà». Un secondo ufficiale giudiziario vien allora inviato, ma non riesce a risolvere la situazione e consiglia di resistere alla procedura di sequestro «se necessario reggendo all’assedio»… Un commissario di polizia è chiamato di rinforzo, il che permette la risoluzione momentanea della questione: il primo ufficiale giudiziario accetta infine di non procedere al sequestro dietro versamento di 700 franchi che vengono consegnati al commissario di polizia. L’avvocato Léon Duval reclama dunque che i costumi siano ripresi da Delphine Baron, che i 700 franchi siano resi alla baronessa e che le siano versati i risarcimenti ai danni.
Di fronte a questo avvenimento, la reazione dell’avvocato Chaix d’Est-Ange è spietatamente sarcastica: «Non so se sia perché si tratta, in questo processo, di un ballo in maschera e di travestimenti che la baronessa di Korf si è creduta autorizzata a travestire i fatti in modo così strano». Egli presenta allora una versione notevolmente differente della questione, non tanto, in sostanza, nelle sue linee principali, quanto nell’interpretazione data ai comportamenti rispettivi dei protagonisti. Ed è questo tutto il senso delle due arringhe, che oppongono le convenzioni sociali alle regole del gioco (o del ballo), l’aristocrazia al mondo della sartoria, l’Ancien Régime alla nuova società.
«I corpetti erano troppo scollati: capisco l’estrema gravità di un tale rimprovero rivolto ad un corpetto»23
Il primo conflitto di norme – il nocciolo apparente del processo – si gioca attorno alla presunta indecenza dei costumi forniti da Delphine Baron per le due giovani figlie della baronessa. L’avvocato Léon Duval lo dichiara subito: quei costumi erano «immodesti», troppo scollati, troppo stretti, troppo fascianti. Egli basa così il suo giudizio sulle norme sociali che codificano allora il contegno e il portamento delle signorine di buona famiglia. Sono dominate da regole di buona creanza imperativa, da questa virtù fondamentale che è la «modestia» : quella che fa evitare gli sguardi insistenti e che impone di non farsi notare, quella che impone un contegno e rassicura i futuri mariti – la semplicità obbligata delle signorine rientrando ampiamente in una strategia matrimoniale. Questo archetipo di signorina modesta si rafforza, del resto, in questi anni 1860, in cui si mette con un nuovo vigore l’accento sulla castità delle donne, sul loro ruolo di figlie, spose e di madri24. Nutre più in generale tutta una polizia morale sotto il Secondo Impero: lo attesta il processo di Madame Bovary, in cui vediamo l’accusa, nella persona d’Ernest Pinard, scagliarsi contro la «poesia dell’adulterio», i suoi «quadri lascivi» e la voluttà sconveniente d’Emma. Questa pudicizia è abbondantemente derisa, come sappiamo, da Baudelaire, che è divertito dalle «foglie di fico del Signor Nieuwerkerke», ministro delle Belle Arti di Napoleone III, che fece coprire la nudità delle statue, o da Astolphe de Custine: «I nostri puritani vestiti di nero si ostinano a voler fare di questo mondo un convento dedicato all’educazione delle giovinette»25. È così che i codici dell’abbigliamento e della decenza seguono rigorosamente le tappe della vita: alla signorina un vestito fino a terra e un’acconciatura elaborata; alla giovinetta, una gonna alla caviglia, una treccia o dei capelli raccolti in una reticella, alla bambina, un vestito che lascia scoperti i suoi stivaletti o pantaloni («tubi di modestia» secondo la lingua dell’epoca, assai significativa) e dei capelli sciolti26. E si impongono ugualmente, anche se può sembrare un paradosso, in quest’epoca particolare del ballo che, per dirla con le parole della viscontessa di Renneville, «ha un’enorme influenza sulle eventualità della famiglia e della vita sociale»27. Tutto sta infatti nel sedurre pur rispettando le norme della decenza, di mostrare il proprio rango sociale senza sfoggiare un lusso spropositato; in una parola, cercare pudicamente marito. Perciò le madri vegliano con estrema cura sulle tenute da ballo delle loro figlie; Léon Duval lo ricorda: «una madre deve vegliare sulla toilette in simili occasioni e deve poterla modificare». In un certo senso, Chaix d’Est-Ange stesso non intende dire nient’altro nella sua formula sarcastica: «I corpetti erano troppo scollati; capisco l’estrema gravità di un tale rimprovero rivolto ad un corpetto; capisco che un corpetto venga meno ad ogni suo dovere quando non risponde esattamente alla missione di fiducia che gli viene affidata». Poiché in questo XIX secolo ossessionato dalla leggibilità del corpo sociale, l’abito è, prima di tutto, un segno, la traduzione immediata dello statuto, dell’età e del sesso: «al mondo si può essere un uomo serio, o un perdigiorno, una donna per bene, oppure una donna appartenente a tutta una serie di sfumature della società parigina, a seconda del modo in cui ci si veste. Ciò che i Latini chiamavano habitus corporis, il modo d’essere, dipende molto dal modo in cui ci si è messi», riassume così l’avvocato Duval. Che una signorina esponga le spalle e il petto agli sguardi e la sua relegazione dalla buona società sarà immediata, questa è la sentenza implicita di Duval. Tuttavia, sottolineiamo che lo stesso discorso non vale per le dame del Secondo Impero. In realtà l’imperatrice Eugenia ha fatto dei décolleté generosi una norma per le toilette da ballo, lanciando così una vera e propria moda che s’impose nelle serate di Compiègne o delle Tuileries. Ad ogni età la sua tenuta, dunque, ma anche ad ogni circostanza: il décolleté sarebbe indecente per una toilette da mattina, mentre è di rigore per i vestiti da sera di ogni gran dama del Secondo Impero28. Impossibile, dunque, interpretare il XIX secolo all’insegna d’una pudicizia trionfante e generale: le norme del pudore sono molto caratterizzate socialmente ma anche molto contestuali – funzione delle attività pratiche, dei momenti della giornata e delle età della vita. Nutrono ugualmente, e in modo indissociabile, un immaginario erotico particolarmente fecondo focalizzato su ciò che impongono le buone maniere, ad esempio di raccogliere (i capelli), o di nascondere allo sguardo (le caviglie).
Questo processo per immodestia condotto da Léon Duval pone tuttavia un certo numero di problemi. Il primo è riassunto con un certo spirito da Chaix d’Est-Ange, che presenta al tribunale la stampa d’un costume da fioraia Louis XV: «sembrerebbe che sotto Luigi XV, è così che si vestivano o piuttosto che… si svestivano le fioraie». La scelta della baronessa di Korf è in effetti intrigante poiché questo costume è sempre caratterizzato da un corpetto molto scollato e una gonna corta. Se pure, naturalmente, rientra nel codice di costume del ballo del conte di Morny, il cui tema era l’epoca di Luigi XV, esso sfugge invece, e in modo immediato, ai codici sociali ricordati con fermezza da Léon Duval. Comunque sia, la cosa più interessante si trova probabilmente a un altro livello, nell’applicazione di questi codici a un ballo in maschera e in costume: la funzione sociale dell’abito propria allo spirito del tempo – di distinzione e di prestigio, d’identificazione statutaria – è così applicata a un universo che, a priori, l’ignora o sembra votato a sovvertirla. Nel ciò fare, l’idea d’un «fuori dal tempo» della mascherata, che permetterebbe in piena impunità, la liberazione dalle norme e autorizzerebbe le licenze che i codici sociali condannano, vacilla ampiamente. L’interpretazione dominante delle mascherate, costruite su questa lettura29, trova qui un limite manifesto: la sfera sociale e il mondo della festa travestita non sono poi così separati, e le norme dell’una pesano, innegabilmente, sul dispiegarsi dell’altro. In realtà ciò che l’arringa di Duval dimostra, è proprio la rigidità di rappresentazioni che resistono alla dissociazione tra regola del gioco e ordine sociale, e che, anche per un ballo in maschera, sanciscono la morale comune che pesa sulle giovani donne. In questo ambito, persino il travestimento non può essere sovversione e il costume deve confermare in modo chiaro il loro statuto. Del resto, i costumi assai scollacciati ma molto lussuosi delle aristocratiche provocanti che sono le contesse di Castiglione o Rimskij-Korsakov ne sono a modo loro testimonianza: lo svelamento del loro corpo s’accompagna in realtà ad una ricchezza del costume che riconferma il loro posto nella gerarchia sociale.
Questo paradossale intrico delle norme, che fa del ballo in maschera uno spazio di consolidamento sociale, inserito nell’ordine del tempo al quale non si deve derogare, spiega del resto la fortissima stratificazione di questi balli, così come ce la ricorda Léon Duval : al ballo del conte di Morny, che richiede una gran sarta ma anche buona creanza, egli oppone ad esempio il ballo dell’Assommoir per il quale Delphine Baron sarebbe stata la sarta ideale, e i costumi perfettamente adatti… per una cameriera.
Su questo terreno – della reintroduzione dei codici sociali nell’ordine del ballo in maschera – Chaix d’Est-Ange sceglie di schivare l’ostacolo: ricordando, da un lato, che durante la prova, la baronessa non ha trovato i corpetti troppo scollati e che, d’altro canto, bastava spostare qualche spillo perché fossero meno stretti. Cosa tanto semplice – sottolinea -, che fu fatta, ma…per restringere uno dei corpetti che era troppo largo. Egli dunque pone la sua arringa su tutt’altro terreno: quello dell’opposizione tra il mondo, frivolo e incoerente, d’una aristocratica russa e il mondo, laborioso e dipendente della sartoria. Pertanto la sposta ugualmente verso una competizione di norme completamente diversa.
«Sarebbe la fine per la grazia e il gusto francesi, se fossero le sarte a dettar legge»30
Al delitto d’immodestia dei costumi si aggiunge da subito, nell’arringa dell’avvocato Duval, ciò che costituisce ben presto uno dei punti di cristallizzazione del processo: le accuse di licenza e d’inciviltà fatte alla casa Baron. Le norme in gioco, e in lotta, non sono dunque solo quelle della buona creanza imperativa di due signorine, ma proprio, probabilmente soprattutto, quelle della gerarchia e delle relazioni sociali.
«Perché hanno occupato i divani con la loro verve da popolino?» con queste sferzanti parole Duval dice tutto, in un certo modo, della concezione del mondo sottesa dalla sua arringa. In essa si applica infatti a riaffermare la distinzione sociale tra la sua cliente e la sarta, o, per usare il suo lessico d’Ancien Régime, l’aristocrazia e il popolo. Accusando le operaie mandate da Delphine Baron di essersi comportate senza riguardi né rispetto per la baronessa di Korf, egli dispiega un insieme di rappresentazioni sprezzanti, comuni all’epoca, che associano le «sartine» o modiste alle donne di leggeri costumi: le quali «avevano la lingua facile e un’abitudine smisurata del ballo in maschera» sottolinea. E facendo questo egli fa suo il cliché d’una femminilità ordinata attorno a due poli: uno ordinato, rassicurante, quello della virtù domestica incarnata dalla baronessa di Korf e dalle sue figlie; l’altro, deviante e sconveniente, quello delle donne che esercitano un mestiere, e in particolare quello d’operaie o d’attrice – associati così a lungo, come si sa, alla prostituzione31. Questi mondi, Duval li mescola del resto nella sua arringa quando afferma che le sarte dissero che «i costumi non erano troppo scollati, e che si portavano così nel gran mondo, ovverosia in tutti i teatri del boulevard». Così facendo egli ricordava apposta il passato d’attrice di Delphine Baron, deridendo ugualmente quel che sarebbe l’orizzonte normativo incerto delle donne per le quali il «gran mondo» si fosse limitato ai «teatri di boulevard». Quel «boulevard», è il boulevard du Temple (nel rettifilo del quale si trova precisamente il Teatro della Porte-Saint-Martin), il «boulevard del Crimine» per i contemporanei, dove ogni sera si recitano, nei teatri che lo costellano, i melodrammi che gli hanno valso questo soprannome32. All’epoca attira un pubblico considerevole, borghese, (che vi si «incanaglia»), fatto di artisti (affascinati dal genere) ma soprattutto popolare, fino al 1862, data in cui quei teatri vengono demoliti dietro l’impulso di Haussmann. Nella gerarchia teatrale della Parigi del XIX secolo, già di per sé socialmente significante, il boulevard del crimine è dunque lo spazio del «teatro da tre soldi», quello degli Amanti perduti di Carné, accessibile a tutti, che mescola teatro, baracche da fiera, spettacolo da strada e caffè popolari – altrettanti «postacci malfamati», per riprendere le parole del prefetto della Senna che li fece radere al suolo senza batter ciglio33. Luogo di licenziosità, se non di depravazione popolare per le ‘élite’ sociali, la sua evocazione permette così a Duval d’assimilare le operaie della sartoria a delle cocotte pervertite.
Gli argomenti e l’immaginario così evocati servono soprattutto e innanzitutto a discreditare la parola della casa Baron, difesa da Chaix d’Est-Ange, rimandando il mondo della sartoria a un universo senza morale né rispettabilità. Tuttavia, un’altra pista, più feconda, viene aperta dall’arringa di Duval, che rivela quanto sia in gioco molto di più di una semplice questione di credibilità delle parti in causa. Mentre Chaix d’Est-Ange sottolinea che solo una perizia permetterà di valutare se i corpetti fossero veramente troppo scollati, Duval gli ribatte:
«Una perizia per sapere se un vestito va bene! Sarebbe come chiedere una perizia per valutare se una mosca si è posata bene! Io dal canto mio sostengo che, in tale materia, anche in un paese di uguaglianza, le dame sono sovrane, e che sarebbe la fine della grazia francese, e del gusto francese, se le sarte dettassero legge. Che un meccanico non sia alla mercé di un industriale per il quale ha fabbricato una macchina, posso capirlo. Qui ci sono delle condizioni precise, matematiche, ben note […]. Ma in materia di abiti, è il gusto individuale che decide. […] Labruyère lo ha detto: «…soltanto un filosofo potrebbe lasciarsi vestire dal suo sarto.» E questo perché un abito può benissimo adattarsi alla nostra taglia, ma restar purtuttavia un abito di cattivo gusto.»
Sovranità della cliente contro le sarte, riaffermazione del suo «gusto individuale» come sola istanza legittima, riduzione del sarto al «fattore» che si limita ad eseguire un’ordinazione, e follia di colui che si rimettesse ai suoi consigli: è proprio questo ruolo – classico, Ancien Régime anch’esso – della nobiltà come arbitro esclusivo del gusto che difende qui Duval. Orbene, e in un certo senso è la posta fondamentale di questo processo, questa «norma», questo gioco dei ruoli che confina il sarto all’esecuzione su misura d’un costume di cui il cliente apporta il modello, sono particolarmente rimessi in causa in questi anni 1850-1860. Nel 1858, Worth, considerato il padre della haute-couture, ha fondato la sua casa: in essa egli propone le sue proprie creazioni, frutto della sua immaginazione, ed esposte sui primi manichini della storia. Sta a lui dunque determinare ciò che bisogna indossare. Ma altri nomi, a noi meno noti ai giorni nostri, hanno ugualmente svolto un ruolo decisivo in questa «consacrazione del sarto» : Staub, ad esempio, citato da Duval, il sarto più celebre dell’epoca secondo Balzac che ne fa il sarto di Lucien de Rubempré, Dusautoy, anch’esso citato, sarto di Napoleone III, o Humann, per il quale disegnò Gavarni e che, si dice, lanciò a uno dei suoi clienti: «Lei sa perché ci sono così tante persone vestite male, Signor Marchese? È perché si vogliono scegliere i propri abiti invece di scegliere il sarto»… Parole quanto mai emblematiche di ciò che è in gioco all’epoca: l’arrivo degli «artisti» al posto dei «fattori», la consacrazione dei sarti o sarte «che dettano legge», detronizzando l’aristocrazia e contestandole il suo monopolio plurisecolare di lanciare le mode. Questo movimento si iscrive in una nuova promozione dei mestieri della sartoria, l’avvento dell’era delle «arti del vestire» ed è accompagnato ancora in quegli anni (prima della mascolinizzazione imperante del «grande couturier»), dalla salvaguardia e dall’affermazione di modiste rinomate, di cui Delphine Baron fa parte. Ciò che rivela dunque l’arringa, è proprio la resistenza che incontra il passaggio da un sistema di norme a un altro, la resistenza opposta alla scomparsa delle antiche convenzioni che fanno profondamente parte dell’identità nobiliare: quando Duval afferma che la gloria degli Staub è fatta dai clienti che, dopo aver rifiutato numerosi abiti, finiscono con l’accettarne uno, e indossarlo, significa proprio la persistenza di queste rappresentazioni che sottopongono un sarto al suo cliente. Questo processo del 1859 mette così in luce quello che per alcuni ha potuto rappresentare la fine dell’Ancien Régime nell’abbigliamento. E’ questo in fondo il senso delle parole di Duval: «quando si è naturalmente dei grandi di questo mondo, e quando dico naturalmente intendo per il sangue, gli antenati, il tono, l’educazione, il saper vivere, si è almeno all’altezza della signora Baron»… che tradiscono implicitamente la quasi disfatta della nascita di fronte al talento in questa querelle di ciò che realmente definisce la norma del gusto.
A questa difesa aristocratica, posta sul terreno dell’infeudazione sociale, morale e culturale delle «fattrici» di abiti, Chaix d’Est-Ange oppone una lettura totalmente diversa: la presa in conto del mondo della sartoria e delle sue realtà sociali, per alla fine rovesciare gli argomenti e dimostrare che leggerezza e incoerenza sono appannaggio della baronessa. Lavoro di sartoria contro capriccio aristocratico, tale è dunque il registro dell’avvocato. Egli sottolinea prima di tutto le ore febbrili di un laboratorio di sartoria nel cuore del carnevale: «Capirete sicuramente quale sia in un simile momento l’attività che regna nella casa Moreau e Delphine Baron: capirete bene a quante domande si debba rispondere, quante esigenze vadano soddisfatte; non si dorme più, neanche ci si corica; è come, mi si perdoni il paragone, nel fuoco dell’azione». Al ritmo dei balli e delle feste, il carnevale è in effetti uno dei momenti di fuoco dell’attività di ogni casa di moda nel XIX secolo, il momento in cui la regola per le operaie dell’ago è quella delle veglie notturne, spesso fino alle ventitré, orari che la legge ha inquadrati solo nel 1892. Chaix d’Est-Ange ricorda così che un’operaia, poi la prima damigella, vennero inviate per la prova d’abito alle ventuno, per non ripartire dall’Hôtel Richmond che alle ventidue. Questo è anche il momento dell’incessante va-e-vieni che caratterizza ancora la produzione d’abiti sotto il Secondo Impero – e che fu interrotto soltanto dai grandi magazzini, con la centralizzazione della produzione in seno ad un unico spazio : va-e-vieni di «galoppine», quelle giovani operaie che consegnano i costumi a chi li ha ordinati, o va-e-vieni tra le case di sartoria e gli atelier che forniscono le parure specifiche – come fu per le ghirlande di rose che, come ci ricorda Chaix d’Est-Ange fu necessario ordinare altrove. Questo momento è infine quello di una rude competizione commerciale che porta l’avvocato a ricordare, per negare ogni legittimità alle testimonianze evocate dalle parte avversa, «che basta presentare ad una sarta un vestito che non sia frutto delle sue mani, perché ella vi trovi tutti i difetti possibili». E così le vigilie dei balli assumono l’aspetto, secondo le parole dell’avvocato, di vere e proprie «battaglie da sferrare»; anche la richiesta della baronessa di Korf sembra dunque particolarmente estranea a questa realtà laboriosa: ella «che cosa le domanda? Due costumi nuovi per le sue figlie; e per quale giorno? Per il 2 marzo […]. due costumi nuovi in un momento simile, due costumi da consegnare entro tre giorni, quando già la signora Baron, ha letteralmente dovuto rifiutare ordini per circa 20000 franchi; era impossibile» lancia egli con forza. Il suo tono allora si fa mordente e ironico, quando finge di comprendere l’ostinazione della baronessa: «questa disperazione io la capisco: si trattava di andare al ballo in maschera, di andare al ballo in maschera dal Signor de Morny.». E descrive doviziosamente una baronessa che incalza senza posa la sarta, fino a quando questa non cede, «vinta, stroncata da questa insistenza che le si incollava addosso». Il contrasto dei mondi è allora patente sotto le parole di Chaix d’Est-Ange: futilità d’un ballo assurto ad obbligo imperativo per i codici aristocratici; compiacenza infelice di una sarta già oberata di lavoro e assai mal ringraziata con un processo, e incredibili «amenità». La buona creanza, come si vede, cambia di campo nell’arringa dell’avvocato di Delphine Baron. Al tempo stesso egli malmena ugualmente e risolutamente l’ordinamento aristocratico della società difeso da Duval. Ai suoi occhi la rispettabilità di nascita invocata dall’avvocato della baronessa non vale: Delphine Baron ha creduto di avere a che fare con una intrigante e il suo «linguaggio strano, pittoresco», le «maniere non meno energiche con le quali era stata accolta la sua prima damigella» hanno confermato questa impressione. Gli usi linguistici che significano l’appartenenza di classe, e che aveva invocato Duval per dimostrare la licenza delle operaie, si rivoltano così contro la baronessa. Egli si prende gioco, del resto, di questa rispettabilità di nascita, invocata da Duval, esclamando: «Bisogna riconoscere che la signora di Korf di affari se ne intende; ordinare dei costumi, non pagarli e poi reclamare 3000 franchi! Essa è nata per il commercio». A quest’ultima, infine, toglie – rispondendo parola per parola agli argomenti del suo avvocato – la sua supremazia in materia di buon gusto e di buone maniere. Innanzitutto, sottolinea che Delphine Baron aveva fatto attenzione a realizzare dei corpetti più accollati di quelli della stampa ricevuta. Si attarda soprattutto, con una ironia che fa centro, sulla sua scarsa conoscenza degli usi del gran mondo: «Alle dieci! Era forse troppo tardi? Basta far notare che sugli inviti si scrive alle ore dieci, ma che, per quanto si desideri ardentemente non perdere nulla di un ballo, arrivare prima delle dieci e mezza significherebbe correre il rischio di vedere accendere i lustri e metter la cera sui parquet; il fatto che le signore di Korf siano straniere non è un motivo per presentarsi come delle provinciali.»
Si disegnano così i contorni non certo di un semplice «affare di stracci», bensì, nel corso di questo processo, quelli di un conflitto di poteri in un momento in cui è in gioco la spoliazione della nobiltà del suo statuto d’arbitro del gusto per il mondo della moda. Diventa quindi teatro di una lotta delle classi. Vi si disegna ugualmente il rovescio della festa imperiale e le realtà industriose che la sottendono. In esso si disegnano infine due universi di pensiero antagonisti, come tradisce la politicizzazione, inattesa e singolare, delle referenze convocate dagli uni e dagli altri. Dietro l’immodestia pretestuosa dei due corpetti è in gioco un altro conflitto di norme: quello che convoca la Francia dell’uguaglianza, del Codice Civile e del diritto, figlia della Rivoluzione, contro la Russia dell’Ancien Régime, della frusta e dei servi della gleba.
«Non so se, in Russia, si trattino in questo modo i servi che ancora vi sono…»34
Al di là del confronto tra le norme del pudore e del contenzioso commerciale, le arringhe danno infine alla causa una dimensione del tutto diversa: quella politica, di un conflitto tra società d’Ancien Régime e società nuova. Prova ne sia fin da subito l’incredibile ricorso, da ambo le parti, ai riferimenti al 1793, all’uguaglianza, al Codice Napoleone, alla bandiera tricolore, alla servitù e ai gentiluomini. È in gioco anche, in modo sorprendente, un altro scontro normativo: quello che oppone un immaginario sociale conservatore, portato dall’avvocato Duval, ad un immaginario sociale dell’uguaglianza giuridica e di nascita, difeso dall’avvocato Chaix d’Est-Ange.
L’arringa di Duval è sottesa dalla denuncia di ciò che egli presenta come un egualitarismo forsennato: quello delle operaie della sartoria e dell’ufficiale giudiziario inviato da Delphine Baron, che descrive irrispettoso delle gerarchie sociali e che maltratterebbe le ‘élite’ titolate. «Esse dissero che in un paese d’uguaglianza, la moglie di un boiardo non era più in alto di un’altra donna, e che non c’erano servi in Francia», egli sottolinea. A questa accusa ricorrente, aggiunge quella di inciviltà: non si è timorati di nessuno […] le dame si possono sedere su semplici sedie, una volta occupato il posto sul divano». Il processo così si sposta dal delitto d’immodestia al crimine sociale di disprezzo delle distinzioni statutarie. L’accusa, tuttavia, va detto subito, non è ritenuta valida dall’avvocato Chaix d’Est-Ange, che la spazza via a colpi di eloquenza «adesso, che l’ufficiale giudiziario si sia seduto arrivando su una poltrona, un divano o uno sgabello, confesso che mi è difficile difenderlo su questo punto, dato che non ho pensato a chiedere tali informazioni alla mia cliente, poiché le ritengo irrilevanti per il processo.» Essa costituisce invece un nodo importante per l’avvocato Duval, che fa di questa rivendicazione egualitaria una minaccia diplomatica e sociale al tempo stesso. Senza esitare a drammatizzare a oltranza l’eco della causa, egli infatti proclama: «Guai ai mercanti del lusso! Guai alle modiste se ci inimicano la Russia!». A questo punto è in gioco, ai suoi occhi, il buon nome e la reputazione della Francia: Non bisogna che all’estero ci si immagini che una volta che da noi è stabilito il Codice Napoleone, se ne è andata la civiltà». Egli fa così sua un’immagine nata precocemente nell’universo del pensiero antirivoluzionario: quello di una Rivoluzione che partorisce dei modi volgari, rompendo con la delicatezza e l’urbanità dei secoli passati. Esiste in effetti innanzitutto un rischio diplomatico: in un momento di un nuovo ravvicinamento con l’autocrazia russa, questa invocazione d’una «Francia dell’uguaglianza» da parte delle operaie è ai suoi occhi una provocazione pericolosa. Agli occhi dell’avvocato Duval, la minaccia non è tuttavia puramente diplomatica, bensì anche sociale: «un tempo gli ufficiali di giustizia allo Châtelet facevano un mestiere pericoloso; presso i grandi, si prendevano a volte qualche bastonata. Lo si considerava un male e a buon diritto, ma tali licenze sono state ampiamente vendicate nel ‘93: non bisogna che oggi siano gli ufficiali di giustizia a prendere a bastonate i gentiluomini». Per l’avvocato della baronessa, il pericolo è chiaro: è quello d’una inversione dell’ordine sociale, in una specie di sovversione carnevalesca in cui i grandi ricevono le bastonate… Su questo terreno, Chaix d’Est-Ange sceglie, dal canto suo, di denunciare, al contrario, la brutalità d’un aristocrazia russa intrisa d’usi arbitrari35. Ricorda perciò che la prima damigella «fu ricevuta…non posso dirvi come; non so se, in Russia, si trattino in questo modo i servi che ancora vi sono ma, in Francia, ci sono poche gran dame che si emanciperebbero fino a spingere così in là la libertà di linguaggio». Il conflitto diventa così un conflitto di culture politiche, ironicamente riassunto dall’avvocato di Delphine Baron: «La baronessa di Korf non si è accontentata di chiedere il risarcimento danni, ha sporto denuncia contro il procuratore, contro l’ufficiale di giustizia. In Russia, ci avrebbero frustati tutti con il knut36; ma, in Francia, il knut non esiste… È un vero peccato, ma non esiste proprio. Aspettando che sia colmata questa incresciosa lacuna del nostro sistema giudiziario, ci si è accontentati, lo ripeto, di sporger denuncia […]». I suoi argomenti lo portano allora a denunciare un’aristocrazia di facciata – Nabokov, «un signore che è, a quel che si dice, un grandissimo signore in Russia» – dalla reale brutalità e, pertanto dall’inciviltà manifesta: Nabokov propose all’ufficiale giudiziario, secondo le sue parole, «di buttarlo dalla finestra; e devo confessarlo, son costretto a convenire che l’ufficiale giudiziario ha avuto il cattivo gusto di non lasciarlo fare, devo confessare anche che ne derivò forse anche un po’ d’irritazione e in verità, mi sembra che al suo posto molte altre persone oneste avrebbero provato la stessa cosa». Chaix d’Est-Ange rimanda i suoi avversari ai loro usi autocratici e pone risolutamente il caso sul terreno del diritto e dell’uguaglianza giuridica. La conclusione della sua arringa è a tal riguardo implacabile: «Ecco, signori, questo processo dal quale si può trarre una piccola morale; ed è che quando si ordinano dei costumi bisogna pagarli; è che la legge è fatta per la signora baronessa di Korf come per tutti quanti; è che, da ultimo, in Francia gli ufficiali giudiziari hanno il diritto, che non si può trovare esorbitante, di opporsi al fatto che il Sig. Nabokov li voglia buttare dalla finestra.»
Chi ebbe la meglio dunque? L’avvocato Duval, «questo abile spadaccino, questo maestro dell’epigramma attico» secondo il Monde Illustré37, o l’avvocato Chaix d’Est-Ange, questo giovane avvocato tanto spiritoso, che quel giorno eseguì «la più memorabile impresa» possibile «in punta di spillo» secondo il quotidiano Le Figaro38? Diciamolo subito, in questo duello, la vittoria spettò alla baronessa. Delphine Baron fu condannata a pagare 1000 franchi di risarcimento danni a causa del sequestro di cui la signora di Korf era stata oggetto, e che fu considerato vessatorio dal sostituto procuratore. La vittoria tuttavia è parziale: in effetti, alla fine del processo fu ordinata una perizia. La vittoria è ugualmente appannata poiché su di essa plana un mistero in sospeso: per Chaix d’Est-Ange, i costumi sono stati portati… senza che nulla, per il momento, ci permetta di smentirlo o confermarlo. La vittoria, infine, è probabilmente soprattutto di breve durata, alla vigilia della caduta di un mondo in cui ben presto il rapporto di forza penderà sempre più spesso a favore delle sarte: «Verrà il giorno in cui avrete la vostra rivincita […]. Allora signori avvocati, terrete la bocca chiusa, e la signora Baron taglierà il filo delle vostre arringhe. Fate attenzione, signori della Basoche, voi che, a un certo momento, parlate così bene di toilette e di tessuti; cosa direste se un bel giorno foste obbligati a comparire davanti a un tribunale di sarte che, giudici sovrani e senza appello, introdurrebbero dei grandi cambiamenti nel severo costume della vostra professione […]. Stavolta non potreste più dichiarare incompetenti queste povere sarte, e voi che avete perorato tanto bene per la moda e il buon gusto, sareste obbligati a subire, senza lamentarvi, e a tacere senza protestare…», predice Le Tintamarre.
Al termine di questa breve storia, resta per noi la speranza di avere dimostrato in che misura le «storie di stracci» cristallizzino dei temi complessi, dei giochi di potere e di gerarchia, là dove si articolano delle rappresentazioni sociali, dei quadri economici e immaginari politici. Ben lungi dunque dalla sfera delle futilità e nel più intimo della singolarità di un’epoca.