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© Geoffroy Nicolaï
Nel XIX secolo per le strade di Parigi, città industriale, città ribelle, l’operaio era un passante familiare. Giornalisti e artisti, poliziotti e uomini di Stato, tutti pensavano di riconoscerlo dal suo aspetto, vale a dire dalla sua blusa, questo lungo e ampio camiciotto di tela che arrivava fino al ginocchio. Il ricordo della blusa, anche se vago, è arrivato fino ai nostri giorni, nonostante la comparsa alla fine del secolo dei «bleus», una tenuta da lavoro diversa, che consisteva in una giacca e pantaloni aderenti al corpo. Il fatto di identificare il popolo operaio dalla sua blusa si piegava alla prassi così frequente, ieri come oggi, di designare una categoria sociale a noi estranea con un attributo dell’abbigliamento, di definirla con una parola.
Ma questa reputazione di norma che aveva a quel tempo la blusa deve essere confrontata con le pratiche d’abbigliamento degli operai reali, ed è questa la nostra principale intenzione. La blusa sì, ma portata da tutti? Tutti i giorni? E al lavoro che cosa si indossava? Domande rischiose perché le nostre fonti, se fanno luce su alcuni aspetti di questa storia, ne lasciano nell’ombra molti altri. Per questo motivo, qui si parlerà solo dell’operaio. Nondimeno, la questione sembra chiara: l’abito, ordinario o elegante, avrebbe progressivamente rimpiazzato nel corso del secolo la blusa dell’operaio parigino; ed il completo della domenica fu la prima e precoce tappa di questa mutazione delle apparenze1. Noi non rimettiamo in causa la realtà dei fatti, ma vogliamo sottolineare il carattere non lineare di questa evoluzione secolare, le sue contraddizioni e la sua complessità; soprattutto intendiamo provare che le regole di abbigliamento in uso presso gli operai, certamente inquadrate dalla prassi professionale e limitate dalle risorse materiali, non gli venivano imposte dall’esterno, ma erano dettate dai loro valori.
La blusa, dalla barricata alla metafora
Della blusa operaia a Parigi non si conosce nessuna rappresentazione o riferimento scritto anteriore all’anno 1830, più precisamente alle barricate della Rivoluzione di luglio, come se ci fosse stato bisogno di questo avvenimento rivoluzionario per farla esistere nella coscienza dei contemporanei: i combattimenti gli avrebbero aperto gli occhi. Qualche blusa appariva nei racconti eroici pubblicati dopo l’avvenimento, come questo «coraggioso, coperto da una blusa blu e con la pistola in mano», la cui audacia avrebbe deciso la presa del Louvre da parte degli insorti2. Un testimone riferisce di aver visto sbucare a piazza de la Bourse all’inizio degli scontri una truppa condotta da «un uomo che dai pantaloni e la blusa di tela bianca […] si poteva identificare come un muratore»3. Ma è nella pittura che bisogna cercare la rivelazione più lampante della blusa, in uno dei personaggi del quadro di Delacroix, dipinto quasi a caldo, La Libertà che guida il popolo. Si tratta dell’uomo a terra, il solo protagonista del quadro che contempla l’apparizione della guerriera, che brandisce la bandiera dai tre colori riconoscibili nelle tonalità dei suoi abiti: una blusa blu, tirata su quel tanto che basta per lasciar apparire la camicia bianca e una cintura rossa. Erano in effetti le vesti di un operaio, raffigurato dall’artista come un soldato della Libertà4.
Dopo il 1830 la blusa divenne un riferimento: ormai, la si vedeva, la si nominava. Così, per l’archeologo Charles Lenormant, la blusa non era altro che una lontana eredità dei Galli, che dall’Alvernia, dove era stata conservata, sarebbe passata da vetturino a vetturino e avrebbe saltato una generazione per conquistare la capitale:
«Per prima cosa è diventata il completo universale dei conducenti di carrozze; dalle strade è passata all’agricoltura; dai campi ha invaso le città e già molte professioni industriali l’hanno riadattata sotto i nostri occhi.»5
La polizia e la giustizia, impegnate nella repressione dei disordini e degli attentati che segnarono la Monarchia di luglio, non mancavano mai di menzionare la blusa indossata da tale o talaltro individuo per sottolineare che si aveva a che fare con degli operai, individui pericolosi. Nel periodo dei grandi scioperi dell’estate del 1840, il prefetto di Polizia si allarmava per i gruppi presenti di sera alla porta Saint-Denis e Saint-Martin, composti «da uomini in blusa» e da «ragazzini»6.
Questo momento dell’«invenzione» della blusa sarebbe stato seguito dalla straordinaria inflazione dell’uso del termine nel 1848. Nel corso dei mesi tumultuosi che seguirono la vittoria popolare di febbraio, «le bluse» erano dappertutto, nei giornali, nei discorsi, sui manifesti, a teatro… Più che una moda, la blusa era a quel tempo un culto destinato al fratello sofferente davanti al quale bisognava inchinarsi. Louis Reybaud, l’economista satirico, ha deriso questa ostentazione diffusamente ipocrita e queste professioni di fede in cui si proclamava il proprio amore per gli operai. «Altri andavano ancora più lontano, aggiungeva, indossavano la blusa e si credevano del popolo perché ne portavano il vestito. Che tempi singolari! Che strane usanze!»7 In effetti, Baudelaire, non fu visto mentre vendeva al mercato del pesce Le Salut public, il giornale da lui fondato a febbraio, «vestito con una blusa da operaio»?8
Di veri operai in blusa ce n’erano, ovviamente, e in massa. Victor Delente, un veterano delle lotte repubblicane, scrive all’inizio di giugno nel suo giornale Le Tocsin des travailleurs9 che la reazione minaccia di confiscare la Repubblica: all’Assemblea legislativa, «la blusa è così rara che sembra stonare con l’ambiente», mentre a febbraio era «l’uniforme delle barricate». Ed è proprio per essere all’unisono con i lavoratori che i Montagnardi, la guardia improvvisata da Caussidière, l’effimero prefetto di Polizia democratica, portavano «il camiciotto blu e la cintura rossa»10. Ma questa «uniforme» si sarebbe rivoltata contro chi la portava. Durante le giornate del giugno 1848, la blusa cessò di essere «il completo più alla moda, il più decente e ben indossato» per diventare «il marchio di Caino», che provocava «un sentimento di orrore e di odio»11. E non era solo un modo di dire. Per i custodi dell’ordine borghese, chiunque portasse la blusa era un operaio e qualsiasi operaio era un insorto. Questo amalgama fu la causa di numerosi arresti ed esecuzioni sommarie, come testimonia Louis Ménard:
«Sul lungo Senna delle Tuileries alcune guardie nazionali della periferia, vedendo passare un uomo in blusa, l’arrestarono con l’intenzione di fucilarlo; un rappresentante del popolo gli strappò l’uomo di mano cercando di spiegare che a Parigi c’erano uomini in blusa che non erano degli insorti, ma appena si allontanò, l’uomo fu riacciuffato e fucilato.»12
Adulata e denigrata, la blusa era diventata non solo un segno riconoscibile da tutti ma anche un’entità, una maniera di parlare dell’antagonismo tra classi. «Le bluse»… L’espressione acquistava tutta la sua forza quando veniva accostata a un’altra, «gli abiti», ossia le persone ben vestite, che indossavano le redingote, in abiti eleganti, i borghesi13. Un giorno di maggio del 1848, diverse centinaia di attori, artisti, impiegati di banca e commessi di negozio chiesero di essere ammessi negli Opifici nazionali, aperti dal governo per assorbire la manodopera disoccupata: finora siamo stati respinti «perché portiamo degli abiti e che per abitudine ci ripugna indossare la blusa», ma siamo degni della considerazione dalla Repubblica «come gli operai»14. Nella guerra di strada, «gli abiti» designavano i borghesi democratici o socialisti, che sposavano la causa operaia e costruivano le barricate insieme alle «bluse». De Maupas, il prefetto di Polizia del colpo di Stato del 2 dicembre 1851, scrive che fece disperdere i gruppi ostili riuniti a piazza de la Bourse, il 3 dicembre, e che in seguito «gli abiti neri si spostarono su altre zone dei boulevards […] per fomentare nuove manifestazioni; le bluse si diressero verso il quartiere Saint-Martin, dove sapevano di ritrovare la maggior parte dei loro amici»15. Nello stesso momento, lo studiante Chassin scopriva, pieno di speranza, le barricate costruite a rue du Temple: «Gli abiti in tessuto di lana dominano ancora, ma si aggiungono le bluse dei veri lavoratori»16. La barricata sarà mista o niente.
«Gli abiti» e «le bluse»: l’espressione sarebbe rimasta per indicare i borghesi e gli operai, che si supponeva dovessero essere opposti in tutto e farsi la guerra. Jules Vallès ha costantemente usato l’opposizione tra «gente in redingote» e «gente in blusa»17.
Intestazione del 27 febbraio 1871 del giornale Le cri du peuple.
Questo famoso articolo di Jules Vallès, “Il parlamento in Blusa”, è dedicato all’immobile sito al Place de la Corderie-du-Temple dove, l’Internationale e la Federazione delle Organizzazioni sindacali dei lavoratori hanno la sede. Vallès scrive: «La Rivoluzione è lei che è seduta sulle panchine, in piedi contro il muro, presenta in tribuna d’onore! La Rivoluzione in abiti da lavoro! […] Salutate! ecco il nuovo Parlamento! »!"
Le cri du peuple, 27 febbraio 1871.
Si potrebbero enumerare i testi politici e militanti che, fino agli anni 1880, riprendevano questa metafora dell’abbigliamento. Ma non si ignorava così la diversità delle pratiche d’abbigliamento degli operai e le loro opinioni sul modo di vestirsi?
Il doppio gioco dell’abbigliamento
L’identificazione della blusa con il popolo operaio, nel linguaggio e nelle immagini, prova evidentemente la sua grande presenza nella folla dei passanti o tra le fila dei rivoltosi. Ma questa blusa, da dove viene? Quali operai la portavano, o non la portavano, e in quali circostanze?
La blusa è nata a Parigi? Non lo sappiamo. Quello di cui siamo sicuri è che è nata nel XIX secolo. Né gli operai delle illustrazioni dell’Encyclopédie (le ultime sono apparse nel 1772), né i banditori18, portavano le bluse. Un passante di Parigi come Louis-Sébastien Mercier parlava della «livrea variegata del popolo», ma non ci aiuta molto19. Daniel Roche, nel suo lungo capitolo sull’abbigliamento del popolo parigino nel XVIII secolo, non dice una parola sulla blusa: semplicemente perché questo indumento all’epoca era sconosciuto20. Si pensa ovviamente a un indumento rurale, la blusa contadina, la cui origine dovrebbe essere nel «blu popolare», questa tintura poco costosa derivata dall’indaco e destinata ai tessuti ordinari in cotone o in fibre miste con cui, in molte regioni, si confezionavano indumenti da lavoro o di lungo utilizzo come la blusa21. La blusa operaia era una versione urbana del «blu popolare» poiché questa blusa era spesso di colore blu22? In ogni caso, il termine nel XIX secolo conserverà sempre un’ambiguità a causa delle sue origini ibride. Le prime rappresentazioni della blusa a Parigi di cui si ha notizia, antecedenti alla rivoluzione del 1830, sono quelle della blusa contadina, sulla scena e sulla stampa23. Nel 1880, Jules Vallès scrisse un feuilleton ispirato alla drammatica jacquerie di Buzançais nel 1847, che si intitolava Le bluse: gli insorti qui sono i contadini24. Potremmo anche ricordare Christophe Thivrier, il «deputato in blusa», che fece parlare di sé recandosi a una seduta della Camera – era stato eletto deputato socialista di Commentry nel 1889 – vestito con una bella blusa blu, come un «campagnolo»25. La blusa, ovvero la campagna a Parigi?
No, quelli che indossavano la blusa a Parigi non erano assolutamente dei rurali venuti a fare i muratori nei cantieri giusto il tempo di un «ciclo stagionale», poiché si pensa innanzitutto ai famosi stagionali del Limosino26. Certo, chi dice muratore dice blusa, una blusa bianca come lascia intendere il disegno di Henry Monnier. Era anche la tenuta degli imbianchini, sempre bianca se si fa riferimento alla folla degli operai presenti intorno all’Hôtel-de-Ville per trovare lavoro, vestiti «con pantaloni bianchi e bluse dello stesso colore»27. A meno che non fosse blu, come affermava nel 1849 una guida molto preparata sul mondo operaio parigino, Pierre Vinçard, che scriveva a proposito della tenuta del pittore:
«Non c’è niente di così pittoresco e tuttavia di più semplice: un paio di pantaloni di tela biancastra che indossa all’atelier per proteggere quello che porta sotto; un camiciotto blu e un grande basco di cotone a righe, simile a quello di Figaro, costituiscono il suo completo da lavoro.»28
Ma ammettiamolo, i pittori non erano degli stagionali, la loro blusa non era una tenuta da campagna... Da un altro lato, erano gli operai edili a non portare la blusa. Vinçard descriveva così la tenuta adottata da molti carpentieri: «Giacca e pantaloni di velluto, orecchini, compasso nella tasca destra, cappello a falda larga, questo è il suo completo abituale»29. Durante tutto questo secolo di grandi lavori a Parigi, di cantieri quasi permanenti, la blusa del muratore o dell’imbianchino, i velluti del carpentiere facevano parte del decoro delle strade. Ma forse non è stato ancora detto l’essenziale: la blusa era anche una tenuta da lavoro nei laboratori e nelle fabbriche. Ci stiamo avvicinando a un campo poco conosciuto della storia del lavoro, ma il fatto che la blusa sia stata indossata al lavoro da alcuni operai è indiscutibile. Non è sorprendente vista la presenza delle macchine e in un periodo di insicurezza sul lavoro? Adolphe Boyer, operaio e scrittore, denunciò il pericolo rappresentato dallo spazio limitato lasciato agli operai negli stabilimenti industriali, soprattutto in quelli meccanizzati:
«Che il vostro passo sia sicuro quando camminate in questi stretti percorsi! Fate attenzione che non vi giri la testa! Perché se inciampate e i vostri vestiti si impigliano nelle ruote degli ingranaggi, sarete inesorabilmente trascinati via e stritolati o schiacciati da enormi cilindri! In questo modo, e troppo spesso, si impigliano le bluse di operai e apprendisti.»30
Il Muratore, disegno di Henry Monnier (incisione di Chevauchet), 1842.
Nel capitolo dedicato al muratore leggiamo: “Uscite molto presto, alle sei d'estate, alle otto d'inverno, dirigetevi verso una casa in costruzione e, grazie a Dio, non è uno spettacolo raro a Parigi, vedrete arrivare da ogni parte un reggimento di operai: camici blu o bianchi per alcuni; giacche di tela pesante per altri; tasche gonfie di un pacchetto di tabacco, una pipa, di solito di argilla, sapientemente tappata, e un fazzoletto di cotone a quadretti rossi; pantaloni di tela o di cotone blu; scarpe enormi e robuste in cui non è ammesso nemmeno l'umile calzino. Il costume è completato da un berretto di stoffa, o da un cappello che si sospetta più che riconoscere, a causa delle macchioline lasciate dall'intonaco slavato e dal fango giallastro prodotto dalla segatura della pietra. Questo copricapo è deformato dai pugni dell'amicizia e della rabbia”.
Estratto di : Émile de La Bédollierre, Les industriels, métiers et professions en France, avec cent dessins par Henry Monnier, Parigi : Veuve Louis Janet, 1842.
Ma allora, perché è stata adottata la blusa? Comoda, malgrado il pericolo? Poco costosa? Imitazione? Spirito di classe che influenzò anche il completo da lavoro?
Comunque sia, la «pista del Limosino» non funziona perché i lavoratori edili non portavano tutti la blusa e quelli che la portavano non erano tutti lavoratori edili: Delacroix ha quindi dipinto un operaio «ordinario». Perché la blusa era sfoggiata da alcuni e ignorata da altri? Per poter rispondere, chiediamoci com’era l’abbigliamento degli operai fuori dal lavoro, per uscire la sera, di domenica, nei giorni di festa... Indossare continuamente la blusa, al lavoro e in città, può significare solo due cose. La miseria oppure la fierezza.
La miseria... Non ho altro da indossare. Alcuni operai l’hanno detto e ripetuto: tutto quello che un operaio potrà mai avere in materia di abbigliamento è «un pessimo cappello, due bluse, due paia di pantaloni di cotone, due camicie e uno scadente paio di scarpe»31. La miseria è tale, dicono alcuni sarti nel 1848, che si vedono alcuni operai accontentarsi di una semplice blusa per uscire e «camminare a piedi nudi»32. È fuori questione rinnovare il nostro guardaroba, scrivono alcuni lavoratori del cuoio nel 1867, «un solo indumento è l’unico modo per equilibrare il [nostro] modesto budget»; e si indovina di quale indumento parlano33. La miseria con il suo seguito di umiliazioni: Norbert Truquin, operaio nomade che arriva a Parigi nel 1848, afferma che poté visitare i musei e i monumenti della città solamente indossando una redingote «perché non lasciavano entrare le persone in blusa»34. È richiesto un abbigliamento formale.
La fierezza... Sono operaio e quindi la indosso. Le testimonianze in questo senso sono più tardive e indirette. I delegati operai venuti dall’Inghilterra per visitare l’esposizione di Parigi nel 1867 espressero spesso il loro stupore nel vedere i fratelli parigini circolare in blusa per le strade e andare a un concerto all’aperto alle Tuileries:
«Un operaio di Londra (me compreso) proverebbe vergogna a presentarsi in società senza indossare un completo di aspetto simile a quello del suo datore di lavoro […] il parigino, che ho incontrato dappertutto, si veste con un buon paio di pantaloni scuri e una giacca, con un orologio infilato in tasca, e come soprabito una blusa pulita […], evidentemente fiero di sembrare un salariato.»35
L’Operaio tipografo
Incisione estratta dal libro di Théotiste Lefevre, Guide pratique du compositeur d’imprimerie, t.1, Parigi: Firmin Didot, 1872-1873, p. 3 [1a ed. 1855].
Jules Vallès, durante il suo esilio a Londra, era rimasto sorpreso dal fatto che gli «artigiani» non portassero la blusa: «Non sono vestiti di blu, vi passano accanto senza che possiate riconoscerli», segno secondo lui di una fierezza malriposta. Sotto un altro profilo, citiamo Denis Poulot, l’imprenditore che disprezzava i costumi operai e denunciava che alcuni di loro «facevano sfoggio della blusa», prova di «sublimazione», vale a dire di arroganza e di odio di classe:
«Negli omnibus, vagoni, trasporti pubblici, se vedete un individuo che pensa di avere il diritto di essere maleducato, risponderà alle vostre timide osservazioni: È perché ho una blusa o perché non ho i guanti, sublime.»36
Ma la fierezza poteva prendere altre strade: esisteva un abbigliamento misto, ovvero una blusa per il quotidiano e una mise ricercata per le giornate importanti. Alcuni operai avevano persino la reputazione di essere dei veri dandy, come i sarti professionisti che non uscivano mai senza gilet bianco e abito nero37! Per le cerimonie di ricevimento, i Compagnons du Devoir et du Tour de France portavano tutti jaquette e redingote38; è famosa la raccomandazione d’Agricol Perdiguier agli operai: evitate la blusa, sempre «scura» e «sudicia», che fa degli operai «une classe a parte», «subalterna»39. Mettete piuttosto gli «abiti da festa» – l’espressione è impiegata dal militante Victor Wynants40. Parlando dell’esposizione universale del 1855 a Parigi, ricorda che la domenica il biglietto d’entrata era stato ridotto a 20 ct. per attirare gli operai41:
«L’operaio vi si recò in abito da festa. Poteva benissimo andarci in questo modo: non era forse la sua esposizione, quella dei suoi prodotti? Poi, probabilmente, arrivarono in troppi oppure i membri incaricati di giudicare gli effetti di questa misura non videro abbastanza bluse, poiché, dopo poco tempo, una nuova ordinanza spostò il giorno al lunedì, col pretesto che gli operai non avevano approfittato di ciò che essi chiamavano un favore. Per approfittarne, bisognava prendersi una giornata di lavoro, prendersi il lunedì!»
Quindi, per gli organizzatori, tutti quelli che non erano in blusa erano per forza dei borghesi, quando tantissimi operai avevano voluto mettersi in ghingheri per andare all’Expo... Un vero qui pro quo in termini di abbigliamento, un arrogante malinteso.
Molti operai possedevano a quell’epoca un doppio guardaroba. Un operaio carpentiere nel 1846 ha redatto il budget dettagliato di un collega sposato: l’uomo possedeva «oggetti di lavoro» – pantaloni e camiciotti: non una giacca quindi, ma anche «oggetti eleganti», tra cui una redingote e un cappello elegante42. Dieci anni dopo, una delle prime monografie scritte da Le Play riguardante un carpentiere, evocava la presenza, accanto ad «abiti da lavoro» – in particolare tre camiciotti – di «abiti della domenica»: un paletot invernale in tessuto di lana nero, un paio di pantaloni in tessuto di lana, un cappello di seta nero, più un «abito blu», che metteva raramente…43 Gli inventari redatti dai giudici di pace per i defunti di maggio o giugno del 1871 – probabili vittime della Semaine Sanglante (Settimana di sangue) – nonché le richieste d’indennità redatte per le persone vittime dell’assedio e della guerra civile rivelano un’ampia varietà di situazioni: un operaio marmista aveva una sola blusa, un paio di pantaloni da «carpentiere» e un «bergeron»; ma uno smaltatore a freddo della via della Folie-Méricourt parlava, per quanto lo riguardava, di una perdita di 420 franchi: tre pantaloni da lavoro e tre camiciotti a titolo di «abiti da lavoro» e soprattutto una redingote in tessuto di lana nero, tre pantaloni, di cui due in tessuto di lana e due gilet eleganti44…
Questi guardaroba eleganti appartenevano ad operai agiati. I carpentieri, dopo il loro sciopero del 1845, erano pagati 5 franchi al giorno45, un salario molto buono per l’epoca, e quello «monografato» da Le Play era capo cantiere. Ma soprattutto questi operai avevano scelto di riservare gli indumenti da lavoro al lavoro. Per altri – quando non si trattava semplicemente di una questione di risorse – la blusa restava l’indumento per eccellenza. Come spiegare che gli operai che formavano il comitato di direzione dell’Atelier, il famoso «organo speciale delle classi lavoratrici» degli anni 1840, durante le riunioni erano vestiti «taluni in blusa, altri in frac»46 o che la tenuta degli operai fonditori di bronzo, convocati al Palazzo di Giustizia nel 1855 per un reato di coalizione, «andava dalla blusa all’abito nero e dal berretto al cappello di feltro»?47 Per un operaio che si rispetti, bisognava scegliere tra la blusa e l’abito.
La fine della blusa
Il seguito di questa storia riguarda la sparizione della blusa operaia dai luoghi pubblici, sia di domenica che negli altri giorni. Quali furono le modalità e le motivazioni di questo movimento di standardizzazione sociale nella presentazione di sé?
L’assenza della blusa salta agli occhi. Tra il XIX e il XX secolo, le decine e decine di cartoline che mostravano le uscite (o gli ingressi) dalle fabbriche di Parigi e della sua periferia mostrano che la blusa ha fatto il suo tempo48: qualcuna appare ancora qua e là – sembra piuttosto un lungo grembiule – mentre la tenuta della grande maggioranza degli operai consiste in un completo spezzato giacca-gilet-pantaloni, più o meno sgualcito, e un berretto; un tocco di eleganza poteva essere dato da un cappello di paglia (il panama) e da una catena d’orologio che usciva dal gilet. Era la qualità scadente e l’usura dell’abbigliamento che rivelava l’appartenenza sociale di chi lo indossava, molto più del vestito stesso. La cosa aveva già colpito molti osservatori esterni. Nel 1887, Denis Poulot considerava che l’operaio aveva acquistato dignità negli ultimi vent’anni. La prova: durante l’estrazione a sorte presso il municipio dell’11° arrondissement, su 1400 coscritti, «cinque o sei, al massimo, portavano le bluse»49. Un altro osservatore dei luoghi pubblici nota un «progresso» nell’«abbigliamento dell’operaio» per questo semplice fatto: sul luogo dove si assumono i muratori, a piazza Saint-Gervais, il 17 febbraio 1905, solo tre operai su 105 portavano la blusa50. Un poliziotto in servizio a piazza della République, durante il 1° maggio del 1907, vide affluire i manifestanti «vestiti in modo grezzo», ma aggiunge «corretto»51. I «blusai», per parlare come Maupas, avevano cambiato pelle.
Artigiani parigini…, disegno di Paul Poncet, 1912.
Prima pagina di L'Ouvrier en meuble del 1° maggio 1912; organo di stampa Federazione nazionale dei mobili.
Naturalmente per le domeniche e le feste, per molti era di rigore una mise elegante. Quasi tutte le monografie dell’epoca potrebbero essere citate, in particolare quelle redatte dall’economista seguace del movimento riformatore «le playsien», Pierre Du Maroussem52. Le redingote e gli abiti in tessuto di lana erano ora completati da cappelli a bombetta e a cilindro, cravatte, scarpe di vernice... Nei ricordi d’infanzia anteriori alla prima guerra, le belle domeniche rimavano con i begli abiti:
«Ci furono anche dei giorni meravigliosi quando partivamo tutti in bateau-mouche fino a Suresnes. Rivedo mio padre in giacca d’alpaca con una paglietta e mia madre in corpetto bianco con maniche gigot e gonna a campana. »53
L’uomo era un semplice imbianchino e la donna un’operaia.
Molti autori hanno insistito su questa impennata delle spese di abbigliamento nei budget popolari, arrivando persino a scrivere: «Vestirsi è più caro dell’affitto.»54 Per quanto riguarda Parigi, l’affermazione è discutibile: la somma destinata dalle famiglie operaie – l’uomo e la donna – all’abbigliamento in generale era sempre inferiore all’affitto annuale che dovevano pagare per un alloggio più o meno decoroso, diciamo 400 franchi intorno al 1900. In quantità, qualità e valore, gli abiti proletari non avevano molto a che vedere con il guardaroba dei veri borghesi, anche se ne imitavano le forme! Non bisogna inoltre dimenticare la massa che non poteva permettersi finanziariamente di farsi bella neanche una volta a settimana.
La famiglia di un conciatore del Bièvre, diventato straccivendolo per mancanza di lavoro, non usciva mai la domenica a causa della «mancanza di denaro e di vestiti abbastanza decenti da poter figurare in modo onorevole in mezzo alla popolazione vestita a festa. »55 H. G. Wells ha parlato nel 1912 di «questa miseria delle scarpe»56. Non possedere calzature portabili significava isolarsi dal resto del mondo. Alcuni genitori, in buonafede o no, utilizzavano questo motivo per giustificare le assenze dei loro figli alla scuola comunale: «Il padre non ha il coraggio di infliggere questa umiliazione al figlio davanti ai suoi compagni di classe più abbienti»57. Le casse scolastiche servivano anche a fornire le scarpe agli studenti più poveri, ma non esisteva una cassa della domenica per aiutare le famiglie povere a prendere il battello per Suresnes senza vergognarsi.
Ciò non toglie che le spese per l’abbigliamento degli operai erano aumentate, contraddicendo tra l’altro una delle pretese «leggi d’Engel» che considerava questa voce una spesa fissa nel budget popolare58, ma soprattutto ciò aveva l’effetto di normalizzare l’aspetto dell’operaio, sia di domenica quando la mise borghese faceva ancora dei seguaci, che gli altri giorni quando ci si vestiva sempre di più con abiti confezionati a buon mercato. Poiché sono quest’ultimi che hanno sbaragliato la blusa.
La fabbricazione dei vestiti è una di quelle rivoluzioni silenziose del XIX secolo in cui la tecnologia non c’entra niente perché tutto è nell’idea: conquistare una nuova clientela grazie a prezzi fissi, ma bassi, impiegando una manodopera a domicilio che poteva essere facilmente sfruttata e continuamente rinnovata59. Nuova clientela? Il confezionista si distinse ben presto dal commerciante di abiti usati per diventare «mercante di abiti nuovi». La sua specialità, almeno all’inizio, era il nuovo a buon mercato, imitando gli abiti eleganti borghesi. Uno dei pionieri del settore, Pierre Parissot, aveva iniziato nel 1824 confezionando «abiti da lavoro» – bluse, camiciotti e pantaloni di protezione –, ma si sarebbe velocemente orientato verso i «completi a buon mercato» che permettevano di essere «vestiti a nuovo spendendo poco», determinando così la fortuna della sua insegna, la Belle Jardinière, imitata da molti altri60. La blusa non rappresentava un mercato soddisfacente, ma colui che la indossava e che ricercava una certa distinzione faceva parte della nuova clientela.
La diffusione degli abiti della domenica e, per la vita quotidiana, l’acquisto di giacche e pantaloni di scarsa qualità, determinarono il successo della confezione alla fine del XIX secolo. Gli «abiti da festa», con cui all’inizio un certo numero di operai amava agghindarsi, venivano forse ancora dal circuito tradizionale dell’usato61, ma dopo il 1860 o 1870 non c’è più alcun dubbio: il confezionista era diventato il grande sarto delle classi povere al punto che esse abbandonarono la blusa anche nel quotidiano. Per chi volesse un’analisi precisa delle quantità prodotte e dei prezzi62, l’abbigliamento popolare a buon mercato è una cosa evidente: Lebrun, un operaio di fabbrica, poteva cambiare il suo completo della domenica tutti gli anni per 25 franchi…63 Nei «reparti novità» della cooperativa operaia la Bellevilloise si potevano trovare, diceva la pubblicità, «completi» confezionati a partire da 20 franchi o, per i soli pantaloni, a 5,75; mentre se un membro della cooperativa desiderava un abito su misura, era costretto a pagare almeno il doppio64. La canottiera, passata da 5 a 1,95 franchi, secondo un’inchiesta sulla biancheria intima del 1907, era diventata un indumento normale per gli operai65. Il fatto che i poveri potessero cambiarsi la biancheria e vestirsi come tutti gli altri è stato accolto dagli economisti liberali come il migliore risultato della confezione:
«Sicuramente, l’abbigliamento confezionato non vale l’abito di lusso realizzato dal sarto […] Sostituisce semplicemente gli stracci o gli indumenti quasi ridicoli con cui si copriva un gran numero di contadini e operai vent’anni fa; e non si può frequentare una scuola per adulti o riunire una grande assemblea di operai, senza restare colpiti da questa felice trasformazione dell’abito, in parte grazie alla confezione. »66
E questa «felice trasformazione» sarebbe anche un cambiamento d’animo, secondo le parole di un importante confezionista:
«L’operaio, un tempo vestito con una tela rada o stracci rammendati, oggi può indossare l’abito; questa tenuta che gli è diventata familiare, lo risolleva e lo obbliga a rispettarsi.»67
Il sublime operaio ora dovrà comportarsi bene.
È la vendita a rate, adeguata al budget operaio, che più contribuì all’affermazione e poi al trionfo della confezione nella seconda metà del secolo. Sperimentato dapprima da astuti commercianti su piccola scala, il credito all’abbigliamento68 fece la fortuna di ditte specializzate, tra cui la più famosa è quella fondata da Crespin: il cliente anticipava una parte del valore dell’oggetto desiderato, poi lo andava a ritirare in negozio e in seguito versava il saldo tramite piccole somme indicate su un libretto detto di abbonamento69. Nel 1872, Crespin fondò la sua sede a boulevard Barbès, presto conosciuta col nome di magazzini Dufayel, i cui cataloghi facevano balenare ai più modesti la speranza di avere accesso a un corpo e a una casa di bell’aspetto. Oggi ci è difficile immaginare l’enorme successo di questa formula: in alcuni immobili popolari, affermano i fratelli Bonneff, erano tutti «abbonati»… Per lo straordinario come per l’ordinario, un’intera generazione accettò di donare, non senza pericolo70, una parte dei suoi risparmi ai registi della confezione.
Il successo delle ditte d’abbonamento è stato spesso attribuito, all’epoca, alla loro politica commerciale molto aggressiva: tutto era buono per trovare nuovi clienti71, ma erano anche i clienti che si lasciavano abbindolare. La confezione rispondeva ai bisogni di tutti coloro che finora si erano dovuti accontentare della blusa e che se ne sentivano umiliati. Per i difensori dell’abito, l’uniformazione che ne deriva non era un difetto, al contrario: non c’era bisogno che l’abito fosse «una demarcazione evidente tra le diverse categorie di cittadini», scriveva nel 1872 un ex direttore dell’Atelier, il tipografo Leneveux, che proseguiva:
«Probabilmente la ricchezza si riconoscerà sempre da un esame attento del completo, dalla finezza delle sue stoffe e dal tessuto, ma l’effetto generale della prima impressione non offenderà nessuno se l’insieme del completo segue le stesse grandi linee per tutti.»72
E basta leggere alcuni rapporti degli operai delegati alle esposizioni universali organizzate oltre-Atlantico per constatare a che punto la tenuta piena di dignità dell’operaio americano avesse lasciato il segno:
«Bisogna ammetterlo, l’operaio americano si veste meglio […] Quando la sua giornata è finita, indossa paletot e cappello e, per strada, niente lo distingue dal più ricco banchiere […] La dignità di ciascuno ci guadagna agli occhi di tutti; auguriamoci quindi con tutto il cuore che questo deplorevole lasciarsi andare, purtroppo tanto generalizzato, della classe operaia francese, sia sostituito dalla tenuta semplice ma corretta dei cittadini americani, poiché siamo persuasi che un abito decente dia maggior risalto al valore intrinseco dell’uomo.»73
Si comprende meglio allora il successo di un Dufayel.
Questa tenuta «corretta» all’uscita dal lavoro è ancora più significativa perché suppone un cambio d’abito sul posto di lavoro. Potersi pulire le mani e il viso alla fine della giornata e togliersi la tenuta da lavoro uscendo dal laboratorio, era il sogno di molti operai74. Nel 1867, per i fonditori di caratteri, tutte le tipografie avrebbero dovuto essere dotate di spogliatoi per riporre i vestiti del personale75. Per «presentarci in pubblico», dicevano alcuni, avremmo bisogno di «bagni» e di «cambiarci la biancheria», ma come fare con i nostri magri salari76? Le attrezzature, malgrado tutto, potevano esistere in qualche stabilimento: dal Secondo Impero, le grandi fabbriche a gas di Parigi erano dotate di un «lavatoio per gli operai», dove potevano anche riporre i loro abiti 77; e anche presso un gioielliere, a un piano alto di rue Jean-Jacques Rousseau, vi erano allo stesso livello dei laboratori uno spogliatoio per gli uomini, uno per le donne e un altro, separato, per gli impiegati78. A ciascuno il suo posto.
La svolta avvenne probabilmente con la legge del 1893 sull’igiene e la sicurezza dei lavoratori, che prescriveva ai datori di lavoro di mettere «a disposizione del loro personale i mezzi per permettere la pulizia individuale, spogliatoi con lavandini, nonché acqua da bere di buona qualità»79. Immaginiamo le resistenze padronali, dal rifiuto puro e semplice ai tentativi di aggiramento, soprattutto per quanto riguarda gli spogliatoi, che occupavano molto spazio. Nei laboratori di ebanisteria del Faubourg, non veniva presa nessuna precauzione per proteggere gli effetti degli operai, come denuncia un sindacalista:
«Non protetti, appesi a un chiodo in un angolo qualsiasi, lasciato libero dall’ingombro dei laboratori, [essi] sono sporcati, usurati, bruciati da tutte queste polveri; allora, malgrado la loro buona volontà, pochi operai riescono ad avere indumenti puliti. »80
Nel 1913, alcuni operai di una falegnameria meccanica dell’avenue de Suffren denunciavano all’ispettorato del lavoro la pericolosità delle macchine, aggiungendo: «Per quanto riguarda l’igiene, non ne parliamo neppure, non ci sono né lavandini, né spogliatoi, per cui siamo costretti a rientrare a casa completamente sudici.»81
In diversi settori dell’industria, la differenza tra il lavoro e la strada restava sconosciuta, che fosse per colpa dei datori di lavoro recalcitranti, di operai troppo timidi o di un ispettorato senza veri poteri82. Ma sempre più operai rivendicavano il «diritto di essere puliti»83. Ora, per cambiarsi, oltre a un luogo occorrono abiti di ricambio. E quale altro modo di procurarsene a buon mercato se non acquistando abiti confezionati di qualità inferiore? Gli operai vestiti quasi decentemente che si vedono sulle cartoline alle uscite delle fabbriche sono i figli di Dufayel e della confezione industriale.
Contro la norma
Ma la storia della norma è molto meno lineare di quello che sembra. Vi sono state reticenze e resistenze operaie, coscienti o no, e vi è stato persino un forte ritorno al passato, davvero molto simbolico. All’inizio la confezione non aveva solo consumatori felici; e ancora meno operai ben pagati. Sono note le disavventure di Martin Nadaud: l’operaio muratore che, la prima volta che ritornò al paese nel 1833, si comprò un completo in tessuto di lana, ma trattandosi di «robaccia»84, i pantaloni si strapparono al primo utilizzo:
«Per fortuna avevo comprato una bella blusa con il collo blu e rosso, stretta da una cintura tricolore, che andava molto di moda a quel tempo. Allora, come dice il proverbio, la blusa nasconde tutto, e mi sentivo ancora fiero ed elegante.»85
Non dimentichiamo che i prezzi bassi degli abiti confezionati erano ottenuti con la compressione dei salari. A volte, anche il personale dei bravi sarti era pagato così male che, per vestirsi, doveva comprare la robaccia dei confezionisti:
«Si fanno tessuti che non hanno alcuna resistenza, tanto che colui che lavora da mattina a sera per confezionare abiti di lusso per gli altri, è costretto a vestirsi con questi tessuti scadenti, che cadono a pezzi. Che contrasto deplorevole!»86
D’altra parte, vi erano molte critiche contro l’acquisto a rate, come nel caso del sindacalista Auguste Keufer:
«È pericoloso ricorrere al credito per utilizzarlo in spese inutili. Bisogna togliere dalla testa dell’operaio l’idea che quando compra a credito, fa un buon affare. Non è vero e non bisogna smettere di dirglielo, di ripetergli che più comprerà in contanti, meno spenderà e in più si assicurerà l’indipendenza e la libertà di spirito»87.
Forse più efficace di questi avvertimenti, fu il sentimento diffuso che apparire vestito come un borghese fosse un tradimento del suo essere e della sua classe. Gli operai francesi delegati alle esposizioni universali non erano sempre sedotti dal bell’aspetto dei proletari stranieri che incontravano in queste occasioni. Ad esempio, a Vienna nel 1873. Gli operai viennesi si vestono bene:
«Indossano un capello, pochi portano il berretto, escono raramente in tenuta da lavoro, la loro pulizia è proverbiale e la loro biancheria lo dimostra», … ma bisogna anche sapere che la disciplina è dura nei loro laboratori e che non hanno una camera sindacale88. Era di questo che si sarebbero dovuti occupare piuttosto che di «cose frivole ed esteriori» come «avere un bel vestito e andare nelle brasserie frequentate dall’alta società»…89
All’inizio del XX secolo, le critiche sindacali furono molto virulente nei confronti degli operai costretti dai loro datori di lavoro a vestirsi bene per presentarsi ai clienti, ad esempio i tappezzieri o gli installatori elettricisti. Il fatto è che questi operai, col pretesto di essere ben vestiti e di frequentare gente altolocata, si credono superiori, giocando agli «aristocratici del proletariato»:
«Si dice che l’abito non fa il monaco, tuttavia basta un camiciotto o una jaquette, una bombetta o un berretto, per scavare tra due persone sfruttate allo steso modo […] un fossato ridicolo che sembra, per la gioia dei nostri padroni, creare una specie di aristocrazia del proletariato.»90
In realtà, fumare il sigaro, non interessarsi che alle corse dei cavalli e portare «solini ben incravattati» non impediscono di essere pagati meno di uno sterratore con «meno libertà di linguaggio, di aspetto e persino di pensiero.»91,Per questi puristi della tenuta, un abito elegante indossato da un operaio con molte probabilità dissimulava un animo frivolo, l’ossessione della mise che conduceva dritti dritti all’egoismo.
Questo modo di vedere – che darebbe ragione al discorso dei confezionisti… – è ovviamente contraddetto da numerosi esempi. L’operaio ebanista «di gran lusso» di cui Du Maroussem ha parlato e che non temeva di vestirsi tutti i giorni con gli abiti della domenica, non aveva assolutamente l’animo di un borghese: ex-comunardo, membro influente della sua camera sindacale, lettore della stampa socialista, l’uomo amava dire: «Un buon rivoluzionario è colui che ha la pancia piena»92 e, abbiamo voglia di aggiungere, un guardaroba ben fornito... Tuttavia, l’argomento del tradimento di classe non poteva lasciare indifferenti tutti i militanti. Che fare allora? Vestirsi bene ma «senza eccessi», come Lebrun, l’operaio di cui parlavamo prima, che, diventato anarchico, rinunciò al cilindro e alla redingote: «Mi stavo imborghesendo […] Non erano abiti abbastanza semplici. »93 Altri, probabilmente molto più numerosi, restavano fedeli in pubblico alla blusa e al camiciotto, al costo di suscitare una riprovazione ancora più forte di un tempo. Un sindacalista dell’editoria, Ferdinand Castanié, ha scritto il racconto edificante di una visita a rue de Richelieu, alla Biblioteca nazionale. Siamo nel 1903:
«Benché i nove colpi dell’orologio fossero risuonati già da un po’ di tempo, la porta del santuario contenente i famosi libri era ancora chiusa.
Sopportavo l’attesa leggendo un giornale... Quando, infine, un guardiano aprì lentamente la porta. Sembrò strizzare gli occhi in modo singolare vedendo il titolo del mio giornale e, siccome mi accingevo a varcare la soglia, mi sbarrò la strada dicendo:
– Ha letto il nuovo regolamento?
Feci gentilmente notare a questo compiacente funzionario che venivo alla Biblioteca per leggere tutt’altra cosa e che non avevo tempo da perdere.
Durante questo breve dialogo, dovette scansarsi più volte per lasciar passare diverse persone alle quali non fece nessuna osservazione.
– Eh va bene! Leggetelo, allora, riprese con un tono insolente.
Fui quindi costretto a contemplare con estrema attenzione questo famoso regolamento, per nulla nuovo, nel quale si diceva che: «Tutti i lettori devono presentare un giustificativo d’identità e di domicilio.
– Molto bene, dissi, ho tutto quello che volete! E, impaziente di finirla lì, gli mostrai subito i miei documenti.
– Non serve a niente, fece lui con un’aria sprezzante. […]
Poi camminando verso di me e fissandomi con uno sguardo di supremo disgusto, mi spinse brutalmente fuori, dicendo:
– Non si entra in camiciotto e pantaloni blu! Bofonchiando insulti vaghi.»94
Infine, la popolarità delle tenute “fuori norma”, alla vigilia della Prima guerra mondiale, dimostra una resistenza simbolica all’uniformità. In effetti, nel settore edile, alcuni operai erano rimasti fedeli alle loro vecchie tenute, sia al lavoro che nella vita quotidiana. Se gli imbianchini avevano abbandonato la blusa al di fuori del cantiere, i carpentieri avevano conservato la giacca e gli ampi pantaloni di velluto i “largeot”, con una cintura di flanella rossa o blu; il completo degli sterratori era molto simile: pantaloni di velluto, cintura rossa, protezione e cappello di feltro. Tutti avevano dei fornitori autorizzati, sia per gli attrezzi che per gli abiti:
«I giorni lavorativi, il carpentiere si veste da carpentiere […]. I completi da lavoro si acquistano nei magazzini specializzati, di cui i due principali si trovano uno di fronte all’altro al faubourg Saint-Martin. Uno dei due si chiama “San Giuseppe”, in linea con la merce venduta, e ha la reputazione di vestire la maggior parte delle professioni cantieristiche.»95
Allo stesso modo, a Parigi vi era un solo negozio che vestiva «les compagnons de la taupe»96.
Tenute a parte, questi operai non temevano di distinguersi in pubblico, perfino al di fuori dei «giorni lavorativi». Robert Debré si ricorda di alcuni operai che aveva conosciuto quando frequentava l’Università popolare del 15° arrondissement:
«Mi ricordo in particolare della figura di un operaio falegname, grande e robusto, che indossava sempre un’ampia cintura di flanella rossa, attorcigliata più volte intorno ai fianchi, e un paio di pantaloni di velluto marrone a coste, leggermente a sbuffo.»97
Un racconto dell’infanzia narra di un vecchio sterratore che abitava a rue Clisson, nel 13° arrondissement. Era un uomo tranquillo, che la domenica amava fare un giro nel quartiere. Com’era vestito?
«Di domenica, si mette una camicia pulita, un cappello di feltro meno sudicio, un paletot meno verde, cambia i suoi vecchi pantaloni fangosi con un paio largo in velluto nero e tutto nuovo, la sua cintura di flanella rossa con una blu e, con la mano dietro la schiena, sempre con lo stesso passo lento, se ne va a girovagare per le strade.»98
Per lui, la domenica era semplicemente il giorno del pulito. «Lo sterratore di oggi si preoccupa del suo aspetto fisico», constatava un sindacalista nel 191499; sì, ma senza per questo avere bisogno di un secondo guardaroba.
Ora, questo completo dell’operaio edile gode all’inizio del XX secolo di un prestigio considerevole. Invade disegni e manifesti dell’immaginario socialista e sindacalista del periodo. Il popolo organizzato, il popolo in lotta è quasi sempre raffigurato con il completo del carpentiere o dello sterratore. L’Humanité o La Bataille syndicaliste, i quotidiani della CGT, si adattarono ai pantaloni larghi di velluto e alla cintura di lana. I pantaloni a sbuffo erano diventati l’emblema dei proletari come lo era stata la blusa nel 1848: non c’è da stupirsi allora che, alle feste dei militanti, il cantante Montéhus si presenti «vestito con un paio di pantaloni di velluto blu e una camicia rossa»100. Sarebbe utile conoscere meglio questa «moda» molto sorprendente, ma sproporzionata rispetto alla posizione che occupano questi operai senza abito.
Manifesto elettorale del Partito socialista, 1912.
Il manifesto denuncia l’ingiustizia delle elezioni comunali a Parigi cui ogni quartiere ottiene un seggio nel Consiglio municipale, indipendentemente sua popolazione. Eppure, il borghese panciuto è niente confronto al carpentiere… Disegni simili sono pubblicati in L’Humanité del 21 febbraio 1914, La Bataille syndicaliste nel maggio 1911, o negli opuscoli di propaganda sindacale..
Riprodotto nel giornale L'Humanité, 3 maggio 1912.
Perché questo prestigio? L’edilizia era il settore di punta del movimento operaio parigino dell’epoca. Gli sterratori erano stati alla guida dei grandi scioperi spesso vittoriosi sui cantieri della metropolitana101; i carpentieri avevano ottenuto un salario di 1 franco all’ora nel 1907, il doppio rispetto al 1845. I loro sindacati erano ricchi e potenti. Gli sterratori, dichiarò Georges Yvetot, un dirigente della CGT, sono «l’aristocrazia coraggiosa del lavoro»102, un bel complimento per dei manovali. Ma vi era un’altra cosa in questo particolarismo dell’abbigliamento: il bisogno di una rappresentazione sociale comoda e compresa da tutti, che non potrebbe coesistere con un aspetto adatto a tutte le occasioni. Uno scioperante vittorioso non poteva portare l’abito.
Ecco la conferma che questa storia dell’aspetto operaio maschile non è quella di una espropriazione, di una perdita o di un livellamento. L’abbiamo vista costantemente caratterizzata dalla fierezza e dalla dignità, il che, a seconda delle epoche e degli individui, faceva il gioco della blusa oppure dell’abito. Qui, la norma era plasmata sulle aspirazioni e i valori dell’ambiente operaio.
“La popolazione attiva non ascolta i cattivi consigli”, designo di Crépon, 1870.
Poco dopo il funerale di Victor Noir, l'arresto del deputato Henri Rochefort, avvenuto il 7 febbraio 1870 nella sala della Marsigliese di rue de Flandre, a La Villette, scatenò tre giorni di tumulti a Parigi, con l'inizio di barricate. Furono eseguiti numerosi arresti per grida sediziose o assembramenti illegali, seguiti da condanne. I dimostranti, operai senza capi dichiarati, avevano invitato la popolazione dei sobborghi a seguirli nella speranza di incendiare Parigi e rovesciare l'Impero. La scena qui sopra dovrebbe rappresentare un tentativo di assunzione di un lavoratore. Un rivoltoso in camice, accompagnato dalla sua replica di un bambino, esorta un pacifico lavoratore a scendere in strada per combattere contro l'Impero. Ovviamente, sarà una causa persa. Interpretare l'immagine è difficile. Dobbiamo vedere nell'abbigliamento degli intrusi e del padre di famiglia un tentativo di creare un contrasto tra camicetta e saio, supponendo che l'indumento posto sulla sedia fosse effettivamente un cappotto o una casacca, e non una camicetta? In altre parole, un camice significa disordine e un abito significa ordine. Un lavoratore ben vestito è un lavoratore che pensa bene. Ma l'immagine evoca qualcos'altro, inscritto nel momento. Durante i precedenti disordini del maggio-giugno 1869 e quelli di febbraio (così come nel giugno successivo, quando le strade di Parigi erano di nuovo in subbuglio), è stato ripetuto più volte dall'opposizione repubblicana moderata che tutti questi disordini erano in realtà causati da poliziotti travestiti da operai, i “camici bianchi”, bianchi per far sembrare i provocatori degli operai edili, o bianchi perché non erano mai stati indossati. Troppo puliti per essere onesti. Il ricordo dei “camici bianchi” dell'Impero era molto vivo e ancora nel Novecento vi si faceva riferimento, a riprova del fatto che l'accusa aveva fatto scuola. Da quel momento in poi, i lettori di Le Monde illustré non poterono fare a meno di pensare che i barricaderi raffigurati fossero in realtà agenti di polizia. Il giornale non lo disse, e anzi citò a sostegno dell'immagine un violento articolo di Amédée Achard sul Moniteur universel, molto ufficiale, che definiva i manifestanti furfanti e codardi! Ma l'ambiguità rimane. In ogni caso, bianco o no, il camice non ha avuto molta risonanza. Si vedano i fascicoli di indulto di alcuni rivoltosi del febbraio 1870 (Archives nationales, BB 24 722) e A. Dalotel, A. Faure, J.-C. Freiermuth, Aux origines de la Commune: le mouvement des réunions publiques à Paris, 1868-1870, Paris, F. Maspero, 1980, p. 348-354.
Incisione pubblicata in Le Monde illustré, 19 febbraio 1870, p. 209-210.
“Il Buon scioperante”, 1909.
Questa fotografia, talvolta riprodotta nelle opere militanti, fu pubblicata con il titolo “le bon gréviste”. Il giornale affermava che era stato preso all'uscita da una riunione di operai edili tenutasi al Tivoli Vauxhall, una grande sala riunioni in rue de la Douane. L'arresto non era affatto improbabile: il 1908 e il 1909 furono anni di scioperi a rotazione nei cantieri pubblici parigini, in particolare nella metropolitana, che portarono a scontri con i lavoratori gialli e la polizia. È stata la prospettiva della vittoria o la semplice gioia di vivere a rendere esultante questo scavatore ben vestito, che ha respinto i poliziotti aggrappati alla sua giacca?
L'Illustration, 29 maggio 1909, p. 377.
Bibliografia, musei, film
Questo articolo avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi se ha trasmesso al lettore la voglia di andare a vedere o rivedere al museo del Louvre il quadro di Delacroix La Libertà che guida il popolo – a nostro parere la prima rappresentazione della blusa operaia – e di leggere o rileggere l’opera di Jules Vallès, un “abito” che ha tanto parlato delle “bluse” (edizioni La Pléiade ou Éditeurs Français Réunis).
Due film illustrano sul grande schermo, nel modo più fedele possibile, la blusa popolare del XIX secolo. Uno mostra la blusa contadina: Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère… film realizzato da René Allio (1976) a partire dal celebre racconto del parricida della Normandia – un anti-Pinagot – e l’altro, la blusa operaia: La Commune (Paris, 1871), il film di Peter Watkins (2000) nel quale la fedeltà all’abbigliamento dell’epoca è impressionante.
lavoratori parigini