YVETTE ROUDY è stata la prima donna Ministro per i Diritti della Donna (1981-1986). Durante il suo ministero, ha varato leggi fondamentali sia nel settore dell’accesso all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (Legge Roudy sul suo rimborso nel 1982), che in quello della lotta per l’uguaglianza dei sessi (Legge Roudy sull’Uguaglianza professionale nel 1983). Si è ugualmente battuta per la femminilizzazione dei nomi di mestieri (creazione di una commissione presieduta da Benoîte Groult nel 1984) e la parità di genere. Traduttrice, in particolare di Betty Friedan (La mistica della femminilità, 1964), è anche autrice di numerose opere, tra cui La femme en marge (1975) e Mais de quoi ont-ils peur? (1995).
La giacca color lilla di Yvette Roudy, fotografata nel suo appartamento, 2016.
In un ritratto di Benoîte Groult, pubblicato ne Le Monde dopo la sua scomparsa, il giornalista sottolineava: «Durante l’adolescenza, Benoîte non si è accontentata di disinteressarsi dei suoi abiti, ma si è sforzata di diventare brutta, come ha ricordato nel libro in cui afferma il suo femminismo, Ainsi soit-elle (Grasset, 1975): “L’idea che il mio onore, il mio successo in quanto essere umano passassero dall’obbligo assoluto di scovarmi un marito, e uno buono, è bastata per trasformare la graziosa bambina che vedo nelle foto d’infanzia in un’adolescente grigiastra e chiusa, afflitta dall’acne giovanile e dalla seborrea, coi piedi storti, la schiena gobba e l’occhio sfuggente non appena appariva un rappresentante del sesso maschile.”» Cosa pensa di queste parole? Di questa idea di una liberazione che passerebbe dall’imperativo di «diventare brutta e dal disinteresse nei confronti dei vestiti?
Yvette Roudy Sono stata amica di Benoîte e l’ammiro per tutto quello che ha fatto e per il suo libro Ainsi soit-elle, che trovo di grande interesse divulgativo. Secondo me, è il suo libro più importante. Ha saputo trovare le parole per spiegare ciò che non era accessibile a tutti e lo ha fatto buttandosi allo sbaraglio, Benoîte era una ragazza molto pudica all’inizio. Si è data in pasto, si è messa a nudo e, così facendo, è riuscita a spiegare le esperienze più complesse, a trovare le parole per metterle alla portata di tutti.Allora… Ciò che racconta in Ainsi soit-elle… Per me, non so se la liberazione di cui parla è veramente stata una preoccupazione del femminismo, ma è chiaro che il fatto che lei porti i pantaloni, che io porti i pantaloni, e che mi ci trovi a mio agio, costituisce in realtà una grande liberazione. Mi ricordo di quando ero molto giovane, durante la guerra, dei primi pantaloni che ho portato… A scuola tra amiche avevamo scommesso che l’indomani saremmo venute in pantaloni. Io sono arrivata coi pantaloni, e le altre invece no, avevano la gonna… E mi ricordo che uno dei nostri prof. mi aveva detto in tono critico: «Lei non ce l’ha una gonna?». E questo per ricordarmi che per le ragazze i pantaloni non erano ancora ammessi. E persino all’indomani della guerra, si usava ancora troppo poco indossarli. I pantaloni sono stati una vera conquista. Adesso, le donne della mia età si sentono bene soltanto con i pantaloni, e le giovani li portano spesso.
Per le femministe esiste una questione della moda?
Non proprio, non mi sono mai trovata davanti a questo tema. O forse ho voluto ignorarlo. Pensavo fosse una questione di secondo piano. Ad ogni modo, vedevo l’abito soltanto come un problema di comfort, non come una questione ideologica. Ma adesso sta diventando argomento di discussione, come ha dimostrato Christine Bard. Anche se penso che le femministe debbano agire solo come pare loro giusto, senza preoccuparsi dello sguardo altrui. George Sand ha sentito il bisogno di vestirsi da uomo, anche Louise Michel d’altronde, perché in fondo era più pratico per lei.Ma la moda, per molto tempo, è stata fatta dagli uomini… E spesso la trovo profondamente ridicola. Gli uomini che vestono le donne in questo modo non le amano! Prendiamo in considerazione le sfilate di moda: nessuno uscirebbe con un abbigliamento simile per prendere l’autobus o viaggiare… Siamo quindi ancora un po’ prigioniere del vestito. In questo senso, è effettivamente una questione che le femministe dovrebbero porsi. Le donne sono state a lungo intralciate, ingombrate, da vestiti pensati dagli uomini… A tal proposito, e ci torno su, penso che il pantalone sia stato una formidabile conquista.
Ci sono dei vestiti proibiti/impensabili per la lotta politica o, a contrario, delle tenute privilegiate?
In realtà, abbiamo un rapporto pratico con i vestiti: quando manifestiamo, quando siamo per strada, bisogna poter correre. Quindi ci vogliono scarpe basse e abiti comodi che non impediscano di farlo… Ma questo vale per le militanti, e non tutte le femministe lo sono. Alcune hanno lottato e agito soprattutto con i loro scritti.
Il colore è mai stato un argomento di discussione?
No, almeno non che ricordi. Quando andavamo a militare non ci facevamo caso. Ma oggi, in effetti, se dovessi avere bisogno di fare un regalo a qualcuno che aspetta un bambino, starei attenta a evitare il rosa, se è una bimba, o l’azzurro, se è un maschietto, per non sottomettermi a idee preconcette.
Per lei ha un senso l’affermazione secondo cui alcuni grandi sarti hanno liberato la donna?
Ci sono couturier che hanno liberato la donna, ma uno o due, non di più. Non mi sembra che la maggior parte dei couturier se ne preoccupino. Poiret, che ha contribuito all’abbandono del corsetto, è importante in questa storia. Quando ero molto piccola, negli anni Trenta, m’imponevano il corsetto… Ma ce ne siamo sbarazzate rapidamente, in seguito. Chanel rappresenta ugualmente ed effettivamente una liberazione per le donne. Ma la maggior parte non lo fanno… Anzi, le intralciano, anche se non lo fanno in modo esplicito. In fondo, è un po’ uno dei segni del potere schiacciante degli uomini sulle donne…Direi infatti che è soprattutto la storia ‒ e in particolare la Grande Guerra ‒ che ha cambiato le cose. Se si guardano gli abiti di prima del 1914 e quelli della fine della guerra, sono totalmente cambiati…È perché nel frattempo le donne hanno capito che, se vogliono lavorare e esercitare mestieri cosiddetti maschili, gli ci vogliono dei vestiti adatti, che non siano scomodi. La guerra ha liberato la donna. D’altronde, in seguito c’è stata una moda di vestiti maschili nel caso di alcune donne, come Madeleine Pelletier, quella donna medico, psicanalista… Condannata perché praticava aborti. L’hanno incarcerata, l’hanno condannata, l’hanno martirizzata, e l’hanno rinchiusa in manicomio. È stato ignobile il modo in cui l’hanno trattata, alla fine è morta, nel 1939. Questo non significa però che le donne femministe debbano adottare necessariamente l’abito maschile, che trovo molto austero… D’altronde, mi chiedo, perché poi quest’abito dev’essere così austero?
Potrebbe parlarci un po’ della sua storia di moda personale, dell’evoluzione del suo guarda-roba?
Mi sono limitata a cambiare il mio rapporto con i colori da quando ho i capelli bianchi. Da allora, mi sono accorta che il nero non mi stava poi tanto male! E quindi non lo rifiuto più, mentre prima vestivo soprattutto colorato.
Lei ha una memoria dell’abbigliamento, famigliare o politica, che influenzi il suo modo di vestire? O una «educazione del vestire» contro la quale si sarebbe costruita e opposta in quanto femminista?
Ho perso mia mamma quando avevo dodici anni… Sono stata un maschiaccio ed ero molto indipendente… Sono soprattutto le idee, in realtà, che mi hanno condotta al mio impegno. Sono diventata femminista grazie a mio padre, che era un macho assoluto. Mi sono ribellata contro di lui, ero in ribellione permanente: «Perché non posso fare questo, mentre mio fratello, lui, lo può fare?». E la risposta: «Perché è un maschio», mi è sempre sembrata un po’ debole… Non l’accettavo, ed è così che è nato il mio femminismo, un po’ intuitivamente. Ho scoperto in seguito l’analisi e la teoria del femminismo, con Colette Audry. Non posso quindi dire di avere riflettuto molto sulla questione dell’abito. Anche se penso che il modo in cui ci vestiamo è, in fondo, essenziale. È una questione di rispetto di sé e dell’altro. Bisogna essere curati e non rinunciare ad una certa eleganza. La bellezza è importante in ogni cosa…
Lei ha un guardaroba diverso a seconda delle sue funzioni?
Una cosa è sicura, e cioè che in quanto ministro, si poteva e si doveva cambiarsi d’abito ogni giorno… Cosa che in fondo è piacevole. Ma con me lei casca male, non cambio mai molto in materia di abiti, sono molto classica!
Le è capitato, in determinate circostanze, di proibirsi certi abiti o tenute?
No, non ho esempi da darle… Come le dicevo, per me l’importante è di essere curata e non scandalizzare, essere a mio agio nei miei vestiti per quello che devo fare. E, d’altronde, e al contrario, non mi sono mai proibita di mettere i pantaloni. Eppure, questo mi è valso qualche problema all’Assemblea Nazionale, perché la legge vietava alle donne di portare i pantaloni, e io la sfidavo. Cosa che mi è successa molto spesso… Ma tutto ciò succedeva trent’anni fa. Adesso le donne si sono liberate da questo problema.Anche se l’episodio del vestito di Cécile Duflot dimostra il persistere di certi comportamenti maschili, ridicoli e inammissibili ai miei occhi. Stessa cosa per il modo in cui Édith Cresson è stata attaccata, insultata… Oggi equivarrebbe a diffamazione. Esistono leggi che permettono alle donne di difendersi, anche se, malgrado tutto, può succedere che le donne stesse non se ne impadroniscano e non si difendano abbastanza.
Quali sono i vestiti che le piace portare?
I pantaloni, sempre… E oggi, non mi piace la giacchetta che indosso, preferirei un colore più vivace [è azzurro pallido, NdR]. Ne ho un’altra del tutto simile, ma rossa, e mi sembra che mi stia meglio! Ma in fondo quello che conta è il comfort. Il comfort passa dal vestito, ci si deve sentire a proprio agio in un vestito. Osservo molto le donne e il modo in cui si vestono oggi… C’è una tendenza al «ricercato». Ho guardato stamattina le donne che andavano a votare [alle primarie della destra, NdR]: Nathalie Kosciusko-Morizet è venuta con la gonna e una camicetta, era molto carina da vedere, ma di solito è piuttosto in pantaloni perché fa delle campagne. Quando una volta le facevo io, le campagne, e ne ho fatte tante ‒ campagne politiche, comunali, legislative ‒ dovevo salire, arrampicarmi, camminare, andare e venire… Bisogna essere a proprio agio, sentirsi bene, e questo avviene solo con i pantaloni, o vestiti molto comodi, come gli uomini in un certo senso, loro non ci pensano su tanto e indossano vestiti nei quali si sentono bene. Ma per tornare a Nathalie Kosciusko-Morizet, penso che giochi coi vestiti in piena libertà, e ha pienamente ragione! Ma io non «ricerco»… Non cerco il dettaglio che colpisce, né voglio distinguermi per questo o quell’altro.Per me è secondario. Mi piace la raffinatezza però, nel taglio di un abito, per esempio. E se a un vestito manca un bottone, oppure si macchia in un punto visibile, questo può mettermi di malumore. Visto che sono sempre un po’ di rappresentanza, ho bisogno di sentirmi bene.
Potrebbe scegliere una sua fotografia per la nostra rivista, e commentarla?
Non saprei… Ci sono due giacche che mi piacciono molto e che indosso quando devo vedere qualcuno d’importante che sono un po’ satinate (in particolare una color lilla). Gliele farò vedere. Mi piace mettere un pantalone nero con una camicetta bianca. Mi piace molto questa tenuta, semplicemente perché mi ci sento bene.
Storica e scrittrice, MICHELLE PERROT ha sviluppato le sue ricerche in molteplici direzioni: lavoro e mondo operaio, delinquenza e carcere, vita privata, storia delle donne. Autrice di numerosi saggi, tra cui, di recente: Storia delle camere (2009), Mélancolie ouvrière (2013) e Des femmes rebelles (2013), ha co-diretto con Georges Duby la Storia delle donne in Occidente. Dall’Antichità ai nostri giorni (1991-1992). Coproduttrice di Les Lundis de l’Histoire su France Culture (1990-2014), ha ricevuto nel 2014 il Premio Simone de Beauvoir per l’insieme della sua opera.
Fotografia della madre di Michelle Perrot, 1921.
Cosa ne pensa delle parole di Benoîte Groult, di questa idea di una liberazione che passerebbe dall’imperativo di «diventare brutta» e quindi dal disinteresse per i vestiti?
Michelle Perrot Capisco la reazione di Benoîte Groult e il suo desiderio di sfuggire all’imperativo della bellezza. «Fatti bella e stai zitta»: conosciamo questo vecchio comandamento. Tante donne hanno condiviso questo sentimento. George Sand si liberò da questo diktat nella sua scrittura e nella vita. Scrivendo la sua autobiografia ‒ Storia della mia vita ‒ ci diede come suo ritratto soltanto alcuni asciutti elementi dei suoi connotati identitari, dichiarando di non intendere tornarci sopra. Si veste da uomo per percorrere Parigi con maggior libertà, viaggiare o montare a cavallo. Ma conservava il gusto dei lavori manuali ‒ vestiva le marionette del teatro di Nohant ‒ e delle belle stoffe. La filosofa Simone Weil dichiarava anch’essa di voler farla finita con ogni tipo di seduzione, per etica e comodità. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma al contrario, in molte donne ‒ anche femministe! ‒ si trova l’attrazione per le parure, la biancheria fine, i bei vestiti, gli abiti che trasformano, che permettono di essere qualcun altro. Il gusto del travestimento come fuga, un’alterità. La moda, purché non sia una costrizione ‒ e una volta lo era più di oggi ‒ permette tali escursioni.
Per le femministe esiste una questione della moda?
La moda è sicuramente una questione per le femministe, nella misura in cui fa parte di un sistema di dominazione del corpo delle donne, della loro apparenza, ma anche della loro morfologia, dei loro movimenti, delle loro attività. Si pensi alla tirannia delle stagioni e dei giorni per le borghesi di un tempo. Ma ci sono molti atteggiamenti possibili tra il rifiuto, l’adattamento, e l’invenzione di nuove mode. Il movimento di liberazione delle donne ha cambiato la moda, le donne non ne sopportano più la rigidità.
Il vestito è un’arma politica?
Il vestito ‒ e più in genere l’apparenza ‒ è stato più volte nella storia un’arma, una forma di espressione politica. La Rivoluzione Francese è stata anche una rivolta della moda, basti pensare ai sanculotti. Per le donne, pensiamo al rifiuto dell’insopportabile crinolina, del corsetto intorno al 1900, all’adozione del bloomer da parte delle cicliste, preludio all’accorciamento delle gonne dalla Belle Époque in poi, a quella dei capelli corti negli «anni folli» che sono anche quelli del tailleur pantalone che caratterizza le “Garçonnes” (cfr. Christine Bard e i suoi due libri su questo tema). Alcune donne si sono tagliate i capelli alla Liberazione per protestare contro la tonsura delle donne. La moda dei jeans è ugualmente una forma di emancipazione. Ma ci può anche essere un’esacerbazione della femminilità, per esempio nella moda hippy con le sue lunghe gonne alla zingara. Il vestito a fiori di Cécile Duflot all’Assemblea Nazionale nel 2012 è ugualmente un modo d’affermare una femminilità nel vestire, troppo spesso ridotta al famoso tailleur pantalone.
Ci sono dei vestiti proibiti/impensabili per la lotta politica o, a contrario, delle tenute privilegiate?
Vestiti proibiti non direi, piuttosto esigenze legate al sessismo comune. Le prime donne in politica si sentono osservate, misurate, sono di conseguenza obbligate ad adottare un abbigliamento neutro, decente, che copra il corpo, mascheri le forme. Bisogna far dimenticare di essere una donna e non portare vestiti sexy. Viva il tailleur pantalone e i colori neutri, che non attirano l’attenzione. Beninteso, le cose col tempo cambiano. I tailleur sgargianti di Roine Bachelot rompono con questa immagine spenta. Delle tenute privilegiate nella rappresentanza, sicuramente. Dei vestiti preferiti nelle lotte politiche, in strada o in riunione, certamente: la generalizzazione dei jeans risponde a questo desiderio di libertà, di neutralità pratica. Ma le donne hanno molta più ingegnosità per apportarvi un tocco di fantasia. Era questa la posta in gioco negli anni Settanta e Ottanta.
Le sembra che abbia senso dire che alcuni couturier hanno liberato la donna?
Alcuni creatori hanno intuito i nuovi bisogni delle donne e hanno contribuito a liberarle. Poiret, Coco Chanel, Saint-Laurent, Sonia Rykiel, sono tra questi. Ma ce ne sono tanti altri, tanto più che in questi ultimi anni nel prêt-à-porter si sono affermate numerose creatrici. Più che di politica, si tratta probabilmente di economia, di adattare il mercato alla «donna nuova» che lavora, guida la macchina, viaggia, pratica lo sport, ecc…
Ci sono colori privilegiati per le lotte femministe o, a contrario, colori proibiti?
I colori da «bebé», blu e rosa, sono stati a lungo vietati. A essi si preferivano il rosso e il nero. Mi sembra però che adesso la tavolozza un po’ grigia delle prime femministe si sia considerevolmente arricchita.
Potrebbe parlarci un po’ della sua storia di moda personale, dell’evoluzione del suo guarda-roba?
Ho una memoria dell’abbigliamento al tempo stesso famigliare e politica che è, me ne rendo conto, intrecciata alla mia biografia. A volte in dettagli infimi e incongrui: il nastro che portavo nei capelli durante l’esodo, un certo corpetto rosso che mi sembrava mi stesse bene, un grande cappotto arancione, che fu quello dei miei primi amori… Tutto ciò è sicuramente più biografico che politico.
Lei ha una memoria dell’abbigliamento, famigliare e/o politica, che influenzi il suo modo di vestire? O una «educazione del vestire» contro la quale si sarebbe costruita e opposta in quanto femminista?
Durante la mia infanzia e adolescenza, mi sono trovata tra due influenze contradittorie. Mia madre (1898-1995) era una donna molto elegante, rispettosa della moda che era quasi un’etica per lei, alla pari con l’igiene. Mio padre, molto sportsman degli anni Trenta, una specie di «Grande Gatsby», amante di auto decappottabili e cavalli, adorava farle regali, frequentare i saldi di grandi couturier per vestirla «chic». Non era ancora nato il prêt-à-porter. Mia madre aveva una sarta che si vantava di esser stata capo atelier da Lanvin. Ogni stagione declinava le sue nuove ‘mise’ e si passava molto tempo a scegliere le forme, i colori, i tessuti. Ho partecipato a questa drammaturgia perché mia madre ci teneva al mio abbigliamento tanto quanto al suo. Nell’adolescenza, non lo sopportavo più. C’era la corvée delle prove e l’angoscia del risultato. Come sono con questo vestito? Mi sta bene? Provavo un sentimento crescente di sfasamento tra lo sguardo degli altri su di me e il mio. Un desiderio di evadere da queste costrizioni.Ma da un’altra parte c’era il collegio religioso - il Corso, come dicevamo - nel quale ho svolto tutta la mia scolarità, la cui austerità nell’abbigliamento e in altri settori è stata rafforzata dalla guerra. Avevamo peccato di frivolezza. Bisognava restaurare l’ordine e la sobrietà. Le suore fino a quel momento secolarizzate, con un vestito nero dal collettino bianco, avevano, grazie al maresciallo Pétain (!), ritrovato il costume religioso, con le sue pieghe e la sua cornetta, e volevano imporci un’uniforme blu scuro, che fece orrore a mia madre. Essa pretestò che non si potesse trovare un tessuto adeguato per scegliere un blu violaceo leggermente diverso, il che fu la causa del mio tormento. Perché ero molto conformista e detestavo queste distinzioni. Soffrii molto quando un’estate dovetti portare una gonna pantalone a righe color pastello, molto carina ma che detestavo perché la trovavo sconveniente! La guerra mi rese giansenista, ostile a ogni frivolezza. Incominciai a detestare le visite dalla sarta, la corvée delle prove. Rifiutavo di mettermi una guaina che mia madre riteneva indispensabile per la mia silhouette: la “linea” era un’ossessione e mi trovavo sempre troppo grassa. Insomma, tutte queste storie di vestiti mi hanno avvelenato la vita, e sognavo soltanto di liberarmene. Il caso ha voluto che Benoîte Groult mi facesse lezione - di latino o inglese, non ricordo più nella mia scuola media per signorine. Ammiravo le sue tenute sportive, i suoi cappelli flosci alla Darrieux, che era il nostro idolo. Ma lei non ha mai saputo di avere contribuito alla mia liberazione nel campo dei vestiti (e anche in altri sensi), lei che voleva essere brutta!
Lei ha un guardaroba diverso a seconda delle circostanze? Si è mai proibita di portare certe tenute?
In effetti non metto sempre gli stessi vestiti, dipende dalle circostanze e dalle occasioni. Mi «cambio» spesso d’abito, o almeno una volta era così, perché l’età attutisce molte cose e autorizza molta libertà, ammorbidendo gli obblighi sociali. Non ho più gli stessi obblighi, non ho più neanche le stesse voglie. Mi capita di mettere più volte gli stessi vestiti, sono più indifferente.Se mi sono proibita certi vestiti? Sì, ero di un pudore e conformismo estremo. Mi sono rivoltata contro la proibizione di portare i pantaloni al liceo, cosa che è durata fino agli anni Settanta. Portavo vestiti, gonne, calze che si smagliavano sempre, o meglio collant, tutte cose che ho praticamente dimenticato.
Che vestiti le piace indossare?
Vestiti comodi, giacche, impermeabili, pantaloni, golf assai diversi, mi piacciono la maglia, il cuoio, d’estate il lino, le sciarpe per variare i colori. Lo sportivo elegante è ciò che preferisco. Apprezzo la moda maschile, che trovo sempre più raffinata. Ho poche tenute veramente eleganti, habillées, come si dice curiosamente. Il che mi pone un problema per questo o quel ricevimento, dai quali a volte mi astengo perché non ho il vestito giusto da mettere!
Le piace fare shopping?
Per molto tempo non mi è piaciuto fare shopping. Frequentavo una boutique raffinata, la cui responsabile, Marie Brunon, era una donna molto intelligente, conoscitrice della moda e, in particolare, di quella italiana. Nella sua boutique accogliente e intima, mi faceva piacere scegliere i miei vestiti. Apprezzavo lo sguardo complice ed esperto delle commesse, molto stabile, mi conoscevano e consigliavano bene. Le prove non mi pesavano, al contrario. Era un bel momento, rassicurante, a volte nonostante il tempo che passava, grazie all’indulgenza della proprietaria del negozio. Un momento piacevole tra donne, che adesso che la boutique ha chiuso, mi manca. Quindi, adesso faccio shopping nei negozi del mio quartiere (rive gauche) oppure nel Marais (confezioni magnifiche). Non che mi dispiaccia, ho lo stesso sentimento di scoperta e, pur privilegiando alcune di esse, cerco di ritrovare le mie abitudini; ma non ci riesco davvero. Sono molto abitudinaria… Frequento anche il Bon Marché, in particolare il reparto maschile, che trovo stupendo. Mi faccio accompagnare dagli uomini della mia famiglia che se la cavano molto bene, mentre io mi sento un po’ persa. Preferisco le strutture piccole, una scelta più limitata. Il grande numero di marche o di vestiti mi disorienta. A volte mi succede di non comprare niente perché, tra tanti modelli diversi, non so cosa scegliere.Tra i creatori: Agnès b., Ralph Lauren, Prada, Pôles per la maglia, e Repetto per le scarpe. Ma non sono una fan delle marche.
Potrebbe scegliere una sua foto per la nostra rivista e commentarla per noi?
Detesto la mia immagine e di conseguenza le mie foto. Non ho niente di piacevole né di pertinente da proporvi. Piuttosto una foto di mia mamma del 1925, così carina nel suo vestito.
Intervista con Gwladys Bernard, Elody Croullebois, Ophélie Latil, Aurélie Louchart. Tutte militano in seno al collettivo femminista GEORGETTE SAND, le cui caratteristiche sociologiche descrivono così: «Il profilo tipico, anche se ci piacerebbe molto cambiare le cose, è la donna bianca di classe media, 25-35 anni, eterosessuale, che ha fatto degli studi superiori.»
Che cosa pensate delle parole di Benoîte Groult, di questa idea di una liberazione che passerebbe dall’imperativo di «diventare brutta» e dal disinteresse nei confronti dei vestiti?
Elody Croullebois Ne parlavamo l’altro giorno, eravamo d’accordo che è riduttiva perché, alla fine, così facendo s’iscrive sempre nello sguardo maschile. D’altro canto, due pagine avanti, è la stessa Benoîte Groult a sintetizzarlo: «Quando sono diventata femminista? Non me ne sono mai accorta. È successo molto più tardi, probabilmente perché avevo avuto tanti problemi a diventare femminile. Tutta questa giovinezza paralizzata dalla paura di non corrispondere alla definizione imposta, e dunque di non trovare un marito, mi è ritornata alla memoria quando ho visto la gioventù delle mie tre figlie, la loro libertà. La vita non è diventata più facile per loro, naturalmente. La libertà non è facile per nessuno. Ma almeno i problemiche incontrano non sono più collegati a questa nozione terribile di «vera donna», al di fuori della quale non v’è salvezza, e che continua a far danni. L’emancipazione sta nel fare quello che si ha davvero voglia di fare.»
Aurélie Louchart Io invece vorrei esprimere una piccola divergenza. È difficile fare astrazione da un condizionamento, in quanto donna, a voler essere desiderabile. C’è sempre una ingiunzione a essere carina o, almeno, a fare uno sforzo per esserlo. C’è anche la pressione a essere in coppia. Non essere desiderabili vuol dire rischiare di rimanere sole. Non ci si può vestire esattamente come si vorrebbe, o si rischia di pagarla molto cara. Per me la cosa essenziale è avere coscienza di ciò che è in gioco. Si può essere super liberata in minigonna o, al contrario, completamente alienata, e la stessa cosa vale per il velo islamico.
Ophélie Latil Il fatto di imbruttirsi, come dice Benoîte Groult, non è una soluzione, no, però appartiene a un’altra generazione del femminismo. Mia madre, che era civetta anche se partecipava a squat lesbici dove si bruciavano reggipetti, mi ha detto che quando arrivava vestita bene a delle riunioni femministe, le facevano l’osservazione: «Ma tu sei femminista anche se ti vesti bene?» Sono reazioni che ho incontrato anch’io dieci anni fa quando ho cominciato a militare, e arrivavo a una manifestazione o uno squat con i tacchi alti. Ma l’emancipazione attuale passa da un rapporto con sé stesse e i complessi che noi tutte interiorizziamo. Ho l’impressione che una volta il complesso fosse di non avere trovato un uomo, adesso è di non riuscire a entrare in una 38.
AL Una volta il tabù era approfittare del proprio corpo, adesso è non fare di tutto per avere un’apparenza perfetta. Ma non mettere il rossetto o i tacchi alti perché non sarebbe femminista, vuol dire sempre e ancora posizionarsi rispetto all’uomo.
OL Anche la nozione di piacere è importante. Si prova un piacere, una sensualità, a mettere un bel rossetto, dei tacchi alti. È un po’ come la maddalena di Proust: la cipria, il fard, passarsi il piumino sulle guance, mi rimandano al gesto che faceva mia nonna davanti alla toilette.
Gwladys Bernard Io ho avuto una fase di imbruttimento, o almeno di disinteresse manifesto rispetto alle apparenze, tra i quindici e i ventitré anni. Non era rispetto allo sguardo degli uomini, semplicemente volevo avere successo nei miei studi e avevo l’impressione che fare shopping o farmi bella fosse una perdita di tempo, consideravo la moda una cosa futile, e l’immagine un trabocchetto. Da parte mia c’era una forma di reazione a quello che aveva vissuto mia madre, che aveva smesso molto presto i suoi studi e aveva fatto la bella vita, aveva vissuto alla grande, in un ambiente molto alla moda. I miei modelli erano donne sciatte, il mio modello non era Sharon Stone, ma Martin Aubry. Volevo restare neutra. L’unico spazio che mi concedevo era quello dei costumi che indossavo (con piacere) per la danza e il teatro. Il cambiamento è arrivato quando ho preso coscienza del fatto che la moda è un dialogo con sé stesse e non un obbligo sociale.
Per le femministe esiste una questione della moda?
In coro Sì!
GB In una frase: la moda è politica, il femminismo è politico.
EC Non direi sia una questione «ufficiale», posta chiaramente, in Georgette Sand, che ha un approccio più trasversale, in particolare sui diritti economici e gli stereotipi. Lo è di più in altri movimenti, come naturalmente le Femen, che decidono di togliersi alcuni indumenti. Ma dalle Georgette – in effetti ne discutiamo spesso e non ci troviamo sempre d’accordo su queste questioni -, da qui nasce un dibattito come quello «string o slip?», che è diventato un tormentone tra di noi (portare uno string è o non è una forma di alienazione?).
OL O sull’ipersessualizzazione di alcune star come Beyoncé, Rihanna o Miley Cyrus. Contrariamente alle altre due, l’ipersessualizzazione di Beyoncé sembra risultare da una forma di empowerment, perché è accompagnata da un discorso militante, è un’ambasciatrice del femminismo e controlla totalmente la sua immagine, ha costruito il suo business. Non è il caso di Rihanna o Miley Cyrus, nelle quali si percepisce una vera fragilità. Ma questo resta oggetto di dibattito tra noi!
AL In realtà discutiamo di questi problemi, ma non vogliamo parlarne pubblicamente perché non vogliamo metterci nella posizione di chi dà voti buoni o cattivi. In fin dei conti, siamo soprattutto per la libertà personale. Ciò nonostante il lavoro delle femministe sulla dittatura della bellezza mi sembra essenziale, non foss’altro che per la questione della reificazione delle donne. Ci sono numerosi studi che dimostrano il legame tra questo fenomeno e i disturbi alimentari o la depressione.
GB Ho visto quello che fanno all’Institut Émilie a Châtelet, dove l’età media è più elevata, intorno ai cinquant’anni. Nessuna delle loro assise o dei loro caffè sono stati dedicati a questo tema. È un’altra generazione per la quale la moda non è un soggetto serio.
Il vestito è un’arma politica?
AL Sì, è un vero strumento di lotta. Le apparenze e i vestiti sono un aspetto della «guerra culturale». Sono simboli, e quindi sono manipolabili.
OL Basta vedere l’uso che la Manif pour tous [Manifestazione contro le unioni omosessuali, N.d.T.] ha fatto del berretto frigio (ripreso d’altronde anche da Mélanchon!), o il codice d’abbigliamento dei movimenti femminili antifemministi come le Cariatidi o Antigone, con i loro vestiti bianchi. Tra le Georgette, abbiamo un vestito simbolico o, piuttosto, un segno di riconoscimento: un fiocchetto verde o viola. L’abbiamo scelto fondando il collettivo perché il nostro obiettivo era decostruire gli stereotipi di genere. Siamo partite dall’idea che certi atteggiamenti, certi oggetti, sono sinonimo di potere se associati agli uomini, ma la loro connotazione è invertita quando sono legati alle donne. Appunto, è il caso del fiocco: il cravattino a fiocco, a farfalla, dell’uomo significa eleganza, serietà, riconoscimento sociale. Invece nella donna il fiocco, soprattutto nei capelli, vuol dire frivolezza, superficialità, fa pensare a una bambina. Riprendendo il fiocco abbiamo voluto esprimere la differenza di rappresentazione tra gli uomini e le donne. Gli uomini del nostro collettivo spesso se lo mettono nei capelli!
Ci sono dei vestiti proibiti/impensabili per la lotta politica o, al contrario, delle tenute privilegiate?
EC No e non ce ne dovrebbero essere. Il vestito che va bene per la lotta è quello in cui ci si sente bene.
OL Io mi faccio un punto d’onore d’essere vestita bene in manifestazione. Proprio perché so che non è questa l’immagine che si ha di una femminista. Adesso sappiamo che le femministe hanno una sessualità, che non sono tutte inacidite, ma ci sono ancora molte idee preconcette sul fatto che siano vestite male, e invece io adoro vestirmi.
AL In passato mi censuravo molto, soprattutto per le manifestazioni, mi dicevo che non potevo indossare una certa cosa, che non sarei stata credibile. Adesso mi sono liberata da questa paura, mi dico che bisogna saper essere imprevedibili. Mettendo del rosa, perché no, possiamo rovesciare la connotazione negativa del «girly». Si tratta di spezzare le convenzioni per aprire al massimo il campo delle possibilità e rifiutare di lasciarsi rinchiudere.
OL A ogni modo è il fatto di essere donna che fa sì che non siamo prese sul serio, e non essere vestite in questo o in quel modo. Quello che crea il problema è semplicemente il fatto di avere una vagina! Non portare il colore rosa, vestirsi di nero, essere sgradevoli: questo era il metodo antico delle nostre madri. Ritengo che anche se sono vestita di rosa con degli unicorni sulle scarpe, ma il mio discorso dimostra la mia competenza, mi si deve ascoltare.
AL I vestiti non proteggono dal sessismo o dal razzismo! Qualunque sia il modo in cui siamo vestite un uomo sessista riterrà che siamo inferiori semplicemente perché siamo donne.
OL Certamente. Mi ricordo di avere percorso un viale dietro ad un’americana vestita con uno short cortissimo, io avevo una gonna abbastanza lunga e ampia, con un top un po’ attillato e accanto c’era una ragazza col velo. Ebbene, hanno molestato e fischiato tutte e tre, abbiamo attirato gli stessi commenti. Non erano i nostri vestiti, ma il nostro statuto di donna a essere in gioco.
Ci sono colori privilegiati per le lotte femministe o, a contrario, colori proibiti?
In coro No, nessun colore è proibito.
OL Il verde e il viola dei nostri fiocchi è quello delle suffragette. Facendo questa scelta ci siamo inserite in una tradizione. Il rosa resta un problema, d’altronde con le Georgette abbiamo lavorato molto sul marketing di genere. Ma non vogliamo rifiutare in blocco il lato «girly» e tutto ciò che questo colore implica su ciò che è «carino». Io non avevo il permesso di portare il rosa quando ero piccola, mia madre non voleva, ho finalmente avuto il permesso di possedere una biro rosa in quinta elementare, dopo cinque anni di negoziati.
AL Credi che anche noi saremo così?
Vi sembra che abbia un senso dire che alcuni couturier hanno liberato la donna?
GB Non liberateci, ce la facciamo da sole! Già l’idea di creatori uomini che liberano una donna mi sembra sospetta. Quanto alle donne, naturalmente si pensa immediatamente a Chanel e a Madeleine Vionnet, per la questione del corsetto. Io direi che ci sono scelte estetiche che sono liberatrici, ma le donne si liberano da sole. Ci possono essere donne in tailleur Chanel che rappresentano l’incarnazione della misoginia!
OL E dopotutto Chanel ha creato vestiti senza corsetto ma che necessitavano d’essere molto magre, era un’altra forma di diktat sui corpi. D’altronde era forse femminista? Per lei sì, ma per le altre? Invece Gaultier è riuscito a fare sfilare delle modelle non magre.
GB Il che resta nonostante tutto un’eccezione, se leggi le autobiografie delle modelle fanno paura. Le femministe si pongono il problema della moda, ma il femminismo non ha l’aria di essere una questione nel mondo della moda o presso gli stilisti. E i costumisti delle grandi produzioni per la maggior parte sono uomini. Ho sentito osservazioni che mostravano una mancanza totale di rispetto del corpo, tipo «dei tuoi seni me ne frego, mettili un po’ dove ti pare», dopodiché si viene schiacciata in un corsetto del sedicesimo secolo senza poter più respirare. È un mondo senza pietà, un mondo di «manine» spesso molto sottomesso.
OL Una delle rare volte in cui ho lavorato con dei costumi di designer è stato al Festival di arte lirica d’Aix-en-Provence. Mi sembra fossero costumi d’Issey Miyake, di gran classe. Gli uomini avevano pantaloni ampi e fluidi di un tessuto simile alla mussolina, magnifici. Noi avevamo scarpe che martoriavano i piedi, avevamo i piedi insanguinati ogni sera e gonne a portafoglio che non stavano ferme. Tutto era stato pensato per gli uomini, ma non per le donne, che erano in una condizione di malessere incredibile, soprattutto visto il caldo di luglio. Nulla corrispondeva né alle morfologie femminili né alle condizioni climatiche. Si capiva che era stato un uomo ad avere ideato i costumi.
AL D’altronde la moda è ancora ampiamente dominata dagli uomini, ci sono molti creatori ma non creatrici.
EC Comincia a esserci una certa presa di coscienza della diversità dei corpi nelle sfilate (sempre che questo non sia per l’appunto un semplice effetto di moda). Ma resta ancora molto da fare, soprattutto quando vediamo campagne pubblicitarie come quelle di American Apparel, dove si mettono in posa ragazzine di quindici anni in posizioni suggestive che ritengo scandalose.
AL Il che rimanda ancora una volta al problema della dittatura della bellezza nelle società occidentali del ventunesimo secolo, che la romanziera Nelly Arcan ha chiamato «il burqa di carne» (eco del «corsetto invisibile» di Éliette Abecassis). Il mondo della moda ha una responsabilità, soprattutto nella scelta delle modelle e ancor di più con i ritocchi Photoshop. Di recente in Inghilterra è stato condotto uno studio su alcune adolescenti. Lo studio dimostrava che la grande maggioranza delle ragazze sapevano che le fotografie di moda erano ritoccate, ma questo non impediva loro di crearsi complessi dolorosi. Questo rimane dunque un tema per le femministe.
Potreste parlarci un po’ della vostra propria storia di moda, della evoluzione del vostro guardaroba? Avete una memoria dell’abbigliamento ‒ famigliare e/o politica ‒ che influenzi il vostro modo di vestirvi?
GB La mia storia di moda non si articola di certo rispetto alle scansioni della moda, che non conosco; non so quali siano i colori della stagione, non leggo la stampa femminile. L’evoluzione del mio stile è legata alla mia traiettoria, mi vesto in modo diverso da quando mi sono impegnata nella militanza femminista. Adesso ho un guardaroba emancipato, mi concedo di portare delle cose che prima mi permettevo soltanto in scena: molto velluto, che adoro, un po’ di pelliccia, nonostante le proteste dei miei amici vegan, del colore, vestiti «fuori dal tempo», capi di forme molto diverse. In seno al collettivo «La Barbe!», nel quale milito, all’inizio ero un po’ più circospetta, perché il movimento, che in grande maggioranza è lesbico, ha uno stile più «queer»; ma adesso ci vado vestita come mi pare. Il codice d’abbigliamento di «La Barbe!» durante le sue azioni è cambiato anche lui: all’inizio l’idea era quella di riprendere i codici degli uomini della Terza Repubblica, poi i militanti si sono accorti che era altrettanto impressionante, se non di più, mettersi abiti più attuali, e persino vestiti o gonne.
EC Fino all’età di quindici anni circa avevo un aspetto piuttosto da garçonne, a base di maglioni e sneaker, mi vestivo con articoli sportivi da uomo. Verso i quindici anni c’è stato un cambiamento totale e ho adottato il look di una donna di quarant’ anni, con scarpette a punta e un taglio corto che m’invecchiava. Non era un fatto sessuale, era semplicemente fuori dal tempo. Si poteva vedere una lontana influenza della moda degli anni venti e trenta, in particolare per i foulard Charleston che mettevo nei capelli. Nelle foto di questo periodo, in mezzo ai miei amici, sembro completamente fuori posto. Poi verso i diciassette anni ho cominciato a vestirmi in modo più conforme alla mia età. Da tre o quattro anni mi metto spesso la gonna. Anche i tacchi a spillo: eppure sono già abbastanza alta (1,70 m.), questo mi fa diventare ancora più alta e mi dà sicurezza, perché la gente è costretta ad alzare la testa per parlarmi. D’altro canto, e questa è l’eredità di mia nonna che aveva una boutique di biancheria intima, adoro la bella biancheria. Nella mia famiglia, che è una famiglia di donne, ci offriamo dei bei completini senza che questo abbia niente di sessuale. È veramente il mio peccatuccio segreto.
AL Per me è stato il fatto di crescere nella provincia di Seine-Saint-Denis a influenzare il mio abbigliamento. Non mi sentivo libera di indossare quello che volevo. Naturalmente c’era il malessere dell’adolescenza, ma anche alcune osservazioni di amici con una definizione abbastanza precisa di quello che era una ragazza «per bene». A predominare era la paura che potesse succedere qualcosa fossi tornata tardi con indosso vestiti che indiscreti. Da questo punto di vista, il mio arrivo a Parigi è stato liberatorio: potevo mettere la minigonna se volevo! Ma provavo sempre un sentimento ambiguo di fronte all’imperativo di corrispondere all’ideale femminile. Sentivo l’obbligo di essere sempre desiderabile. Fino all’età di trent’anni ero convinta che se avessi messo un pigiama di pile invece di una camicia da notte sexy il mio ragazzo mi avrebbe piantata... Mi ci è voluto del tempo per sbarazzarmi da questa alienazione incorporata. Oggi posso utilizzare qualunque registro, secondo le mie voglie.
OL Ho un ricordo d’infanzia molto preciso: mio fratello chiedeva con insistenza a mia madre uno di quei pantaloni da ginnastica con i bottoni a pressione sul lato della gamba, cosa che mia madre rifiutava di comprargli. Gli aveva persino tirato fuori un articolo di Jean-Paul Gaultier, dove il couturier spiegava che non bisogna curarsi dello sguardo degli altri. Ma non riusciva a convincerlo, e allora un giorno di mercato si mette in testa il cestino di vimini a circola da uno stand all’altro così, spiegando ai commercianti sbalorditi il perché della situazione. Ha incontrato molta benevolenza da parte loro, che si congratulavano con lei. Mio fratello era rosso dalla vergogna, ma io adesso sento una grande ammirazione per lei, per avere osato far questo. Se riuscissimo a smettere di giudicare la gente in base alle apparenze sarebbe una grande conquista femminista.
EC O almeno a guardarci con una maggiore benevolenza.
GB In effetti le nostre evoluzioni si sono svolte secondo momenti legati alla nostra militanza o alla nostra vita sentimentale, più che in funzione della moda. Naturalmente tutto avviene sullo sfondo di una moda d’epoca, anche solo secondo quello che si trova nei negozi.
Avete un guardaroba diverso a seconda delle circostanze? Vi siete mai proibite di portare certe tenute?
OL Mi capita di praticare l’autocensura. Oggi avevo un appuntamento professionale: ho indossato un abbigliamento più scuro del solito, tacchi alti, e ho infilato un golfino sulla mia camicetta di pizzo abbastanza trasparente. C’è un codice particolare nel mondo del lavoro da cui non riusciamo a uscire. E quando ero a Scienze politiche mi è capitato di dovermi cambiare tra due esami orali: un abbigliamento da ragazza di buona famiglia per l’orale di Diritto civile, e un golfino di cotone biologico e una cintura di corallo per gli orali di Sociologia.
GB Nel periodo in cui preparavo i miei colloqui per cercare un posto all’università uno dei miei mentori mi ha detto: «Lei non ha capito niente, rappresenta troppo una minaccia. Lei deve essere brutta e simpatica.» Quindi mi sono imbruttita, pantaloni neri, giacca nera, capelli raccolti in uno chignon, occhiali (che in realtà non porto) e persino uno scialle. La sera al binario della stazione mia madre non mi ha riconosciuto. Mi ero travestita e questo mi ha dato sicurezza, mi dicevo che l’abito faceva il monaco.
EC Visto che lavoro nella stessa azienda da quattro anni e che l’ambiente è molto simpatico, fino a poco tempo fa mi permettevo quasi tutto dal punto di vista dell’abbigliamento. Mi vestivo nello stesso modo per il lavoro e il tempo libero. Un giorno mi sono ritrovata con alcuni amici a bere qualcosa dopo il lavoro, e tra loro c’era anche un collega, e qualcuno si è stupito dell’aspetto sexy del mio abbigliamento al lavoro, mi ha chiesto se questo non giocasse contro di me. Io ho risposto di no, ma ho visto il mio collega fare una faccia strana. Mi ha detto di essersi accorto di sguardi un po’ scioccati da parte della direzione. Da allora sto più attenta, perché non voglio nuocere al mio sviluppo professionale. Sul piano più personale, per gli incontri «blind» di tipo Tinder, evito di mettere i tacchi alti al primo appuntamento, perché so che se il tizio non è molto alto questo potrebbe bloccarlo. È il colmo per qualcuno che lotta contro gli stereotipi di genere, lo so!
Che vestiti vi piace portare?
AL Ciò in cui mi sento a mio agio. Dipende dal momento, dal mio umore…
OL Della biancheria, gonne (non porto quasi mai i pantaloni, la gonna corrisponde meglio alla mia morfologia e la trovo molto più pratica nella vita quotidiana), scarpe coi tacchi. Non esito a portare i décolleté. Da noi si mette in mostra il seno, eh sì!! E adoro gli stivali che porto questa sera [neri di velluto con delle frange, e un tacchetto] vanno bene con molte altre cose, si adattano a ogni contesto, sono super comodi, sono un po’ la mia coperta di Linus! Ho anche un particolare affetto per le cravatte a farfalla di mio nonno, che mi metto ogni tanto. D’altronde i costumi che mi metto in un contesto militante, come quando ho fatto la «Super Precaria» al Parlamento europeo, mi hanno aiutato ad appropriarmi del mio corpo attraverso la trasgressione. Al contrario, ho avuto a lungo problemi con il kimono che uso per fare aikido perché è brutto, ma incomincio a non preoccuparmene più, alla fine anche lui mi permette una specie di liberazione.
GB A lungo sono stati i costumi. Intorno a otto anni ho avuto il mio periodo di costumi rivoluzionari o ispirati a I Miserabili. E anche il tutù e il giustacuore da danza. Questi costumi di scena spesso erano fatti da mia madre che aveva ricevuto una formazione di costumista, anche se non aveva mai lavorato. E così ho portato con piacere parrucche e crinoline… Oggi nella vita quotidiana ho tenuto alcuni pezzi atipici ai quali sono particolarmente affezionata: un cappotto redingote rosso di velluto dallo stile un po’ marziale, un cappello.
Vi piace fare shopping?
EC Non è una passione, per me dipende anche un po’ dall’umore. Di solito mi deprime, ho l’impressione che non mi stia bene niente, di essere grassa e brutta. Invece mi piace recuperare i vestiti delle amiche, mi piace l’idea di mettermi qualcosa che è appartenuto a qualcuno che amo. D’altronde ieri sono caduta, c’è mancato poco che una macchina non mi mettesse sotto, e ho fatto un buco nel pantalone di un’amica. Ero così triste per aver bucato il suo pantalone, non gliel’ho ancora detto.
OL Anche per me dipende dai giorni. E non mi piace l’uso delle taglie che fanno alcune marche come Abercrombie, che non confeziona i suoi vestiti nelle taglie al di sopra della 42 per mirare a una clientela giovane, snella e ricca. Inoltre, avendo lavorato nel mondo delle ONG, cerco di evitare di comprare vestiti fabbricati da donne sottopagate nel Bangladesh. È anche per questo che mi piace comprare indumenti di seconda mano.
GB L’ho odiato a lungo e ancora adesso non mi piace troppo. Sono i vestiti che vengono da me, attraverso Internet, oppure perché vedo qualcosa per caso andando a comprare il pane o qualcos’altro. Compro pochissimo, recupero da mia madre, le cugine, le zie. E mi faccio regalare molti vestiti.
Ci sono creatori di moda il cui lavoro apprezzate?
EC, OL e AL Sì, ci sono alcuni designer, delle marche i cui vestiti ci piacciono, ma non abbiamo voglia di valorizzarli pubblicamente, perché il loro lavoro spesso non ha niente di etico o femminista!
Ci sono donne di cui vi piace o ammirate lo stile, l’apparenza, il modo di vestire?
EC Nella mia famiglia da un punto di vista morfologico il modello era più Marylin che non Audrey Hepburn. Ma faccio fatica oggi a rispondere a questa domanda perché non mi vedo erigere a modello nessuno su queste basi. Uno dei primi modelli femminili che mi ha ispirato e ho incontrato durante uno stage alla Areva è, lasciando da parte l’ideologia, Anne Lauvergeon. Ha un grande carisma, una grande sicurezza, ha successo, si confronta con gli uomini. È veramente incredibile.
OL Mi piace l’uso trasgressivo dei vestiti e delle apparenze che hanno fatto George Sand o Alexandra David-Néel (che aveva rubato la vera di sua madre per poter viaggiare da sola)! Da bambina ho avuto pochi modelli femminili esterni, mi orientavo su modelli maschili (ad esempio i moschettieri) senza per questo avere problemi di identificazione. Ma le donne della mia famiglia sono state dei modelli: donne molto forti, belle, padrone della loro vita, del loro mestiere, del loro matrimonio.
AL Chimamanda Ngozi Adichie. È una scrittrice brillante e sublime. Le piacciono i bei vestiti, le scarpe, il rossetto, senza complessi. Non bisognerebbe dover dissimulare che ci piacciono delle cose cosiddette «femminili» per salvaguardare la nostra credibilità, come se l’interesse per la moda fosse sinonimo di mancanza di cervello. Il suo discorso pacato su questo tema mi ha aiutato e fatto riflettere.
GB Ho fatto fatica a trovare, ma direi Colette, di cui ho letto e apprezzato i testi prima di scoprire le fotografie, e trovo che avesse uno stile folle in qualunque età della vita. Altrimenti, mi sembra che abbiamo parlato tutte molto delle nostre madri e nonne, come modelli o contro-modelli. Quindi sono loro a essere i nostri grandi riferimenti in materia di femminilità, di vestiti, e di aspetto. E forse è ancora più complicato quando si è avuta una madre femminista e militante, che rifiutava tutto ciò che considerava femminile!
«Nasconditi, oggetto!» «Stai giù e bruca!»
Graffiti sui muri della Sorbonne, maggio 1968.
Immagine del film documentario Avec nos sabots, 1980, prodotto da Yves Billon.